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L’ira dell’Arabia contro Obama

La casa reale saudita è molto arrabbiata con gli Stati Uniti. Più di quanto non lo sia mai stata negli ultimi anni. Da tempo Riad e Washington sono alleati ai ferri corti, divisi sulla politica da realizzare in Medio Oriente. Ma i cambiamenti repentini verificatisi negli ultimi mesi su Siria e Iran hanno causato un allontanamento ulteriore tra i due paesi tanto da convincere per la prima volta la famiglia reale saudita ad esternare pubblicamente il proprio disappunto e a minacciare contromisure nel caso in cui l’amministrazione Obama non dovesse correggere la rotta.

Ultimamente alcune esternazioni ai media internazionali e soprattutto la rinuncia ad un seggio offerto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno reso assai evidente quello che sta diventando un vero e proprio conflitto tra i due partner sempre più divisi. Tanto che la scorsa settimana il principe Bandar Bin Sultan ha annunciato a vari diplomatici europei che il suo paese cambierà significativamente le proprie relazioni con gli Stati Uniti, minacciando anche Washington non solo di diversificare la propria politica estera rispetto agli interessi USA, ma addirittura di ridurre il proprio sostegno al debito statunitense in un momento di forte crisi della credibilità internazionale del dollaro e dei titoli della superpotenza in declino.

Oggetto principale del contendere, è evidente, è quella che i sauditi chiamano ‘timidezza’ e ‘immobilismo’ o ‘passività’ di Obama rispetto alla guerra civile siriana. E’ proprio denunciando la ‘incapacità di questa istituzione internazionale nella risoluzione della guerra civile siriana” che Bin Sultan ha annunciato la rinuncia al seggio al Consiglio di Sicurezza, al quale Riad stava lavorando alacremente da ben due anni. Insomma alla famiglia reale saudita non è andato giù il colpo di freno degli Stati Uniti nel sostegno diretto ai ribelli siriani, e quando Washington ha dovuto rinunciare all’intervento militare contro Damasco i sauditi – e non solo – sono andati su tutte le furie. Anche perché in contemporanea l’intelligente mossa del nuovo presidente iraniano Rowanì ha convinto gli Stati Uniti ad abbassare i toni anche contro Teheran, altro obiettivo storico, insieme alla Siria, della nuova potenza regionale in ascesa. Assai esplicite le dichiarazioni del principe Turki al Faisal, ex capo dei servizi segreti sauditi ed ex ambasciatore a Washington, che ha definito “intollerabile” la politica USA in Siria e “una farsa” l’accordo raggiunto con la Russia sulla distruzione delle armi chimiche del regime di Damasco.

Ora gli Stati Uniti cercano di tenere in piedi un sistema di alleanze in Medio Oriente che potrebbe saltare a causa degli aggiustamenti in corso d’opera sul conflitto siriano, molti dei quali resi necessari dalla crescente debolezza di Washington e dallo schieramento sul campo per la prima volta non solo simbolico ma anche militare di Russia e Cina. E così Obama ha deciso di inviare John Kerry a Riad per tentare di ricucire con Bin Sultan: l’Arabia Saudita non solo è il principale produttore di petrolio del mondo, ma è anche un partner fondamentale della politica di potenza USA, oltre che uno dei principali investitori nella propria disastrata economia (insieme ai cinesi).
A infastidire gli irosi sauditi non sono solo i cambiamenti di Washington rispetto a Siria e Iran (paese leader della cordata sciita e nemico numero uno dei sunniti capitanati dalla petromonarchia saudita), ma anche la sospensione di una parte dei consistenti aiuti militari tradizionalmente accordati dagli Stati Uniti all’Egitto ora governato dai militari golpisti sostenuti a spada tratta dalla casa reale wahabita di Riad. I sauditi, che stanno contrastando le rivendicazioni degli sciiti in Libano e soprattutto in Bahrein e nello Yemen, vedono ora minacciati i propri interessi anche in Iraq. E temono che gli sciiti passino all’azione – opportunamente stimolati da Teheran – per denunciare l’apartheid alla quale sono sottoposti dai sunniti anche nelle province orientali dell’Arabia Saudita, una delle zone del paese più ricche di pozzi di oro nero.

Per ora quello tra Riad e Washington è uno strappo parziale. Proprio in questi giorni è emerso che i due paesi hanno firmato un accordo per addestrare militarmente 1500 ribelli siriani in territorio saudita. D’altra parte il legame con gli USA è difficile da superare, e l’aumento dell’aggressività saudita in Medio Oriente ed anche più a Est non può non tener conto degli interessi di Washington. Così come è sempre avvenuto dal 14 febbraio del 1945, quando il re Abdelaziz, padre dell’attuale sovrano, firmò un patto d’acciaio con Franklin D. Roosevelt. 

Ma certo la tentazione di fare da soli, a Riad, è sempre più forte. Anche perché nel frattempo l’Arabia Saudita deve fare i conti con la spietata concorrenza del Qatar – che in Egitto e Siria sostiene i gruppi legati alla Fratellanza Musulmana – e della Turchia. E in molti a Washington temono che i wahabiti mandino avvertimenti pesanti ai loro ‘alleati’ statunitensi. Come accennavamo, dalla loro i sauditi hanno un importante elemento di pressione nei confronti della debole e ondivaga amministrazione statunitense: Riad reinveste una parte rilevante dei profitti petroliferi in titoli finanziari americani e la maggioranza dei 690 miliardi di dollari di riserve valutarie estere della banca centrale saudita sono in dollari, spesso utilizzati per acquistare debito pubblico statunitense. Se l’Arabia Saudita dovesse interrompere questi investimenti e addirittura iniziare a vendere il proprio petrolio non più in dollari per Washington sarebbero davvero guai.

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