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Ue impazzita. “Non bastano i trattati? Avanti coi contratti”

Chi non capisce cosa significhi, sul piano teorico, il termine “contraddizione” dovrebbe guardare cosa sta accadendo nel processo di costruzione dell’Unione Europea. Più diventano evidenti gli squilibri mortiferi creati da una strutturazione “stupida” ma rigida, più si accelera nella stessa direzione.

 

“Contraddizione”, infatti, non qualifica un “gioco di parole”, ma uno scontro tra fatti reali. E il problema della Ue è quello che sta distruggendo decenni di “civiltà europea”, le nostre vite, le prospettive future, il destino di tutte le generazioni (sia giovani che “anziane”).

 

Se ne sta accorgendo giorno dopo giorno anche l’establishment economico, mentre quello “politico” (mezze figure senza spessore e tantomeno dignità istituzionale, come si è confermato in questi giorni con il “caso Cancellieri”) se ne frega altamente, sapendo o sperando che le prossime elezioni sono lontane. Tranne quelle “europee”, appunto, nella prossima primavera, che però non implicano necessariamente un feedback sul quadro politico nazionale.

 

Al centro delle critiche mainstream è posta ormai da tempo la Germania, la cui politica economica – imposta a forza di debito a tutti i partner – ha scatenato una deflazione talmente devastante da aver già superato l’oceano Atlantico (inflazione Usa di oggi: il dato congiunturale è -0,1%).

 

Ma non ci sono strumenti interni all’Unione per cambiare politiche. E questo spinge la stessa Germania e i suoi non molti – e non autonomi – “alleati ad accelerare le tappe. Per vincolare tutti i paesi ai diktat della Troika, infatti, non bastano più neppure i “trattati” (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, ecc); si chiede di firmare “contratti” capestro, in modo da far assumere integralmente agli ispettori sovranazionali i poteri di stesura e controllo dei bilanci nazionali, delle “riforme strutturali”, dei tagli al welfare, delle politiche salariali, ecc.

 

Perché? Il motivo contingente è facile da capire: ogni governo nazionale, spaventato dalla possibile (o già avvenuta) reazione sociale ai tagli, cerca comunque di dilazionare o annacquare il più possibile le “raccomandazioni” ricevute da Bruxelles. Può sembrare addirittura “generosa” questa descrizione dell’azione di governi che stanno letteralmente spolpando le rispettive popolazioni, con una preferenza per lavoratori, giovani, pensionati. Ma in effetti la Troika pretenderebbe di più e prima. “Nel 2012 soltanto il 10% delle raccomandazioni Ue sul tema hanno avuto seguito”, ricorda l’attenta Adriana Cerretelli su IlSole24 Ore.

 

Non c’è ovviamente da far conto sulle capacità diplomatiche dei Letta e Saccomanni, due “funzionari neoliberisti” senza alcun dubbio sulla “validità” delle politiche Ue; a massimo con qualche ragionevole preoccupazione “interna” (alla maggioranza, mica alla coesione sociale!). Anzi, è sempre possibile che l’innata tentazione di fare “i primi della classe” produca risultati persino peggiori di quelli ipotizzati.

 

Sta di fatto, per tornare alle battute iniziali, che la contraddizione “europea” si dclina ormai in questo modo: “uscire dall’Unione e dall’euro costerebbe troppo, restarvi costerà certamente tutto”. Parliamo di modello sociale, livello dei salari, coperture previdenziali, valore degli immobili… i fondamenti della coesione sociale in un determinato territorio, insomma. Oltre queste colonne d’ercole – ma non si può chiedere ai funzionari del capitale multinazionale di commuoversi per questo – nulla può più tenere insieme. Chi dice di voler “combattere il populismo” deve sapere che sta alimentando la bestia del nazionalismo. E può darsi  che sappia benissimo quel che sta facendo. Non sarebbe del resto la prima volta, no?

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La ragnatela tedesca trappola per l’Europa

 

di Adriana Cerretelli

 

Si continua ad annunciare ma non si vede la ripresa economica nell’eurozona lambita dalla deflazione. Quel segno più che precede lo 0,1% di crescita registrato nel terzo trimestre, con Germania e Francia in frenata rispetto alle previsioni e l’Italia pure, più che alla scintilla della rimessa in moto assomiglia all’ennesima, sconsolante finzione.
Sviluppo fermo, disoccupati in aumento, euroscetticismo in costante lievitazione a sei mesi dalle europee. Apparentemente però nessuno se ne cale, a parte la Bce di Mario Draghi. Parole tante, niente fatti concreti. In compenso il cantiere delle riforme per rafforzare la governance dell’euro non conosce riposo a Bruxelles e dintorni.
Il cosiddetto “semestre europeo” ha appena mosso i primi passi. I mugugni di governi, parlamenti e pubbliche opinioni ancora non si sono quietati e domani a Bruxelles, c’è da giurarci, si faranno risentire forti e chiari alla riunione dei ministri Eurogruppo.

 

Eppure già si prepara il passo successivo, quello dei “contratti”, ovviamente vincolanti, per garantire l’effettiva attuazione delle riforme strutturali. Un tasto che vede le capitali tradizionalmente poco ricettive, vuoi perché le riforme sono spesso impopolari, vuoi perché danno risultati quando chi le ha varate non ne potrà beneficiare, anche se magari nel frattempo ne avrà pagato lo scotto elettorale. A riprova nel 2012 soltanto il 10% delle raccomandazioni Ue sul tema hanno avuto seguito, dicono le stime della Bce.
«Dobbiamo andare oltre le attuali procedure del semestre europeo. C’è un chiaro impegno su questo punto» aveva dichiarato Angela Merkel in ottobre, al termine dell’ultimo vertice Ue. L’idea dei contratti è tutta tedesca. Con accordo da raggiungere al vertice di dicembre. Magari insieme all’intesa sul meccanismo di risoluzione per le banche.
I tempi però sono stretti, le posizioni su entrambi i dossier ancora lontane. C’è chi scommette di riuscire ad avvicinarle rapidamente giocando sui due tavoli: i contratti in cambio di un’unione bancaria finanziariamente più solidale di quella oggi auspicata a Berlino. Che invece vorrebbe scaricare il peso di future ristrutturazioni o fallimenti sulle spalle e sui fondi di tutti i diretti interessati, nazionali s’intende, per non trasformarli in oneri europei.

 

Quando ha trovato il proprio tornaconto, la Germania ha già ceduto su terreni ritenuti impensabili: in cambio dell’impegno costituzionale ad azzerare i deficit nazionali, blindato nel “fiscal compact”, prima ha accettato di creare il Fondo Salva-Stati, l’Esm. E poi ne ha consentito l’utilizzo per finanziare anche le banche, una volta incassata la supervisione unica limitata ai maggiori istituti europei.
Funzionerà di nuovo l’accordo di scambio? Già le nuove regole del semestre europeo, che rafforzano disciplina dei conti pubblici e coordinamento delle politiche macro-economiche, mordono le sovranità nazionali su bilancio e gestione dell’economia, con poteri di intrusione senza precedenti. Anche sulle dinamiche democratiche.
Il nuovo tassello dei “contratti” comporta nuove cessioni sempre più al cuore delle sovranità nazionali, dei modelli di sviluppo e di società dei Paesi dell’euro: dall’efficienza della pubblica amministrazione al funzionamento del mercato del lavoro, dalle pensioni alla sanità passando per istruzione, ricerca e innovazione, ma l’elenco ancora non è definitivo.

 

La Germania vuole un’unione economico-monetaria appiattita sul proprio modello per non correre più rischi con i partner indisciplinati, inefficienti o poco competitivi. La ratio dei suoi contratti è chiarissima. Ma quella di chi dovrebbe accettarli?
«Investimenti e coesione sociale sono la crescita di domani» ripete (invano) un diplomatico francese. L’Europa di oggi non distribuisce ne gli uni né l’altra. Al contrario. Proprio l’altro ieri l’Europarlamento ha approvato il bilancio pluriennale (2014-20) ridotto, per la prima volta nella storia Ue, in termini reali rispetto al precedente. E ha anche detto sì alla clausola che sospenderà gli aiuti Ue ai Paesi in deficit eccessivo o con eccessivi squilibri macro-economici. Chi spera, come Francia e Italia, di firmare i contratti in cambio di congrui aiuti europei rischia di essere deluso.
Una ragnatela di vincoli sempre più soffocanti, sovranità nazionali ridotte all’osso, scelte di società e di sviluppo private della loro identità, stimoli a crescita e occupazione solo simbolici: se questa è la nuova equazione europea, lo sbarco in forza di nazionalisti e euroscettici al prossimo Parlamento europeo è assicurato. E in parte anche giustificato.

 

 

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