Credersi padre della patria, come e più di Atatürk, seppure della Turchia del terzo millennio inizia a far davvero male a Recep Tayyip Erdoğan. La crisi che oltre a coinvolgere tanti suoi ministri, in ritardo defenestrati, non può non trasferirsi sull’ambizioso premier che sognava (e tuttora sogna) di diventare Capo di Stato d’una Repubblica da orientare al presidenzialismo. Modifica costituzionale non ancora attuata, e lungamente vagheggiata proprio da lui, anche per ottenere un personale proseguimento di potere. Il rapporto col potere sta diventando il male oscuro, che più di quelli fisici comparsi e combattuti due anni or sono, inizia a logorare la vanagloria dell’ex sindaco di Istanbul. Proprio la sua città gli riserva da mesi colpi che trascinano una popolarità, indiscussa sino a tutto il 2011, verso la caduta libera. Più di un analista sottolinea l’inanellare di errori con cui sta sbagliando tutto sul fronte interno ed estero. L’attacco forsennato al dissenso politico, mediatico e da ultimo, ma sicuramente il più ingombrate, sociale iniziato con la vicenda del Gezi Park l’ha gettato in una spirale di contestazione-repressione dalla quale nonostante gas, pallottole, galera e uccisioni a uscirne malconcia è solamente la sua leadership.
Forza e insidie del blocco sociale – Visti gli intrighi di molti ministri del proprio governo e i famelici interessi di speculatori edili (comunque non diversi dai nostri Caltagirone e Ligresti) lui non s’è sentito di lasciar cadere il duello scoppiato con la gioventù del parchetto adiacente a Taksim e assimilato da tanti cittadini della cosmopolita metropoli sul Bosforo. Un conflitto che ha poi coinvolto l’altra sponda, non attenuato neppure dalle strabilianti modernizzazioni della città dei sultani descritta da Pamuk, ora unita dall’avveniristico Marmaray subacqueo. Certo c’è un gran pezzo di Turchia, ben oltre Istanbul, che non vuol perdere questo treno e l’altro di un’economia che ha viaggiato spedita, anzi sfrenata per tutti gli anni Novanta e soprattutto nel nuovo secolo. La Turchia delle tigri anatoliche che col decisionista interprete dell’Islam moderato ha creato un blocco sociale saldamente interclassista, capace d’unire businessmen e padroncini alle maestranze locali e d’importazione. Ma oltre alla spinta attenuata, e per un tratto bloccata dalla crisi mondiale, molto stanno facendo errori e megalomanie di Erdoğan stesso. Proseguiamo sulle vicende interne. Nel partito interclassista da maggioranza quasi assoluta (49,83% alle politiche del 2011) è salita una moltitudine, compresi vari carrieristi senza scrupoli.
Infamia acquisita e quella cercata – Sono costoro coi casi di corruzione personale e familiare (le vicende dei figli di tre ministri incriminati sono la punta dell’iceberg) a mettere in ampia difficoltà l’immagine di buon governo venduta per anni dal premier. Che s’era già problematizzato con altre questioni come la citata insofferenza alle critiche tanto da incrinare i rapporti con l’altra figura spendibile dal partito nella leadership nazionale: il presidente uscente Gül. Quest’ultimo attualmente non si pronuncia sull’ampio rimpasto governativo, chi dice perché s’attiene al ruolo (la Repubblica non è ancora presidenziale), chi ne sottolinea i tratti opportunistici che lo portano a non esporsi soprattutto in un momento di marasma, chi perché lo ritiene vicino al movimento di Fetullah Gülen con cui Erdoğan s’è scontrato sulla faccenda del finanziamento alle scuole private di cui l’Hizmet è ampiamente depositario. Gravi pecche dell’azione erdoğaniana sono l’umiliazione degli avversari e le persecuzioni politiche degli oppositori; i tentativi, a volte praticati in altre ricercati, di censura dei media; l’insofferenza del ruolo della magistratura. Quest’approccio potrà pesargli non poco all’interno dello stesso partito, perché contravviene a quanto sostenuto fino a non molto tempo fa.
Diversità di pesi e misure – Tutti fanno notare che l’attacco alle gerarchie militari da lui voluto e passato attraverso i tribunali ha visto alla fine generali e ammiragli adattarsi ai voleri della Corte. Perciò Erdoğan resterebbe nudo di fronte al Paese se volesse contrastare l’azione della giustizia nei confronti dei membri del suo governo e del suo partito. Per salvare quest’ultimo, e l’Islam moderato oltreché liberista sostenuto da Gülen medesimo, si potrebbe verificare un abbandono alla sua sorte del premier, ma è solamente un’ipotesi attualmente senza segnali visibili. Ovviamente il quadro mediorientale non gioca a favore né di Erdoğan né del progetto politico accarezzato e incarnato. Dal deflagrare delle Primavere arabe le costruzioni diplomatiche dello stratega degli esteri Davutoğlu sono in declino perché, differentemente da quanto a lungo teorizzato, coi vicini, prossimi e lontani, i problemi sono diventati giganteschi. L’evoluzione militare della crisi siriana e a seguire quella egiziana hanno spiazzato totalmente le uscite del Capo del governo, che verso Damasco s’è fatto Europa più di qualsiasi nazione europea nel sostenere ribelli, ma anche mercenari se non proprio jihadisti anti Asad, mentre in Egitto ha abbracciato la causa di una Fratellanza fatta oggetto dello scempio dei generali golpisti.
Sfrenato egocentrismo – Stare a galla in politica estera nei momenti di subbuglio è peggio ch’esser naufraghi in mari tempestosi, ciò nonostante Erdoğan è riuscito nell’impresa di tuffarsi, e non solo finire, nei marosi. Per smania di protagonismo da anni accetta ogni sfida e va a cercarne di nuove. Frutto d’una personalità – così sostiene chi ne scandaglia anche la psiche – che compie la madornale svista di concentrarsi principalmente sul proprio io, sottostimando chi ha di fronte, amici e avversari. L’eccesso di sovraesposizione si sta rivelando un limite per sé e un danno per la nazione, oggi molto isolata nell’area regionale in cui voleva stabilire un predominio dopo i reiterati dinieghi europei ad aprirle le porte dell’Unione. Per questo la soluzione più indolore per il movimento dell’Islam moderato sarebbe neutralizzare dall’interno l’artefice finora in primo piano. Passo nient’affatto scontato sia per il clan di sostegno di cui gode il premier, sia per una diretta ammissione di responsabilità. Però nel partito c’è chi fa notare che già nelle amministrative di marzo ogni membro dell’Akp impegnato nella campagna elettorale potrebbe essere additato alla maniera del “dagli al ladro” gridata a Istiklal e dintorni. Sporca faccenda per tutti, dunque. Le prossime settimane ci diranno altro.
articolo pubblicato anche su http://enricocampofreda.blogspot.it
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