Per la prima volta da quando due settimane fa il regime turco ha cambiato formalmente posizione mettendo a disposizione dell’aviazione statunitense le sue basi militari nel sud del paese un drone statunitense decollato da quella di Incirlik ha bombardato un obbiettivo delle milizie jihadiste dello Stato Islamico (Isis) nel nord della Siria. A diffondere la notizia sono state fonti governative di Ankara che hanno parlato di ‘azione letale’ ma senza specificare l’entità dei danni inflitti ai fondamentalisti del Califfato. Che d’altronde continuano ad avanzare: durante la notte i jihadisti hanno infatti preso il controllo della località di Al Qaryatayn, nella povincia di Homs, nel centro della Siria, dopo pesanti combattimenti con le forze governative che alla fine hanno dovuto ritirarsi. Ieri tre attentatori suicidi si sono fatti saltare in aria vicino ad un checkpoint dei lealisti riuscendo così a sfondare le difese e ad occupare la comunità, strategica per la sua posizione sulla strada che porta a Palmira, già strappata a Damasco lo scorso maggio e attorno alla quale sono tuttora in corso aspri combattimenti. E’ in questo quadro che si inserisce la nuova dichiarazione del regime turco secondo il quale Ankara inizierà presto una lotta “senza quartiere” contro lo Stato islamico (Isis) nel Nord della Siria. L’altisonante dichiarazione è stata pronunciata dal ministro degli Esteri del governo uscente turco, Mevlut Cavusoglu, nel corso dell’incontro realizzato in Malaysia con il Segretario di Stato Usa John Kerry. “Adesso, insieme agli Stati Uniti, stiamo addestrando ed equipaggiando l’opposizione (siriana) moderata e presto inizierà la nostra lotta senza quartiere contro Daesh”, ha detto Cavusoglu ai giornalisti all’inizio dell’incontro con Kerry. “Allora la terra sarà più sicura per l’opposizione moderata che combatte l’Isis sul terreno”, ha aggiunto ricordando il raggiungimento di un accordo con Washington che prevede la possibilità sia per le forze statunitensi sia per quelle turche di intervenire contro chiunque metta a rischio la sicurezza dei mercenari incaricati di occupare il nord della Siria, esercito siriano compreso. E in attesa di poter creare dall’altra parte del confine la tanto agognata zona cuscinetto, la prima preoccupazione di Ankara rimane la guerra dichiarata contro la guerriglia curda. Ieri il regime ha nominato un nuovo capo dell’esercito per dare nuovo slancio alle operazioni militari che hanno finora causato numerose vittime tra i combattenti del Pkk e tra i civili dei villaggi bombardati nel Nord dell’Iraq ma senza indebolire più di tanto la guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan.
Il comandante delle forze di terra, il 63enne Hulusi Akar, raccoglie l’eredità di capo di stato maggiore dal generale in pensione Necdet Ozel, nell’ambito della ristrutturazione delle forze armate.
La sua nomina è arrivata durante il vertice annuale di tre giorni del Supremo Consiglio Militare, presieduto dal primo ministro Ahmet Davutoglu. Akar, che ha vasta esperienza in ambito Nato, predilige la linea dura rispetto a Ozel, la leadership del quale è coincisa con un periodo di “relativa calma” – in realtà costellata di attacchi e da una militarizzazione estrema dei territori curdi – nel sudest della Turchia a maggioranza curda.
Nelle ultime ore, tra l’altro, contro i curdi Ankara ha incassato la vicinanza del regime del Qatar, piccola ma potente petromonarchia che ieri ha rotto gli indugi e, prendendo le distanze anche dalla Lega Araba, ha espresso la sua “piena solidarietà” alla Turchia per i raid aerei dell’aviazione dell’esercito di Ankara, nel nord dell’Iraq contro le postazioni dei ribelli curdi del Pkk. A parlare è stato un comunicato ufficiale del ministero degli Esteri del governo di Doha.
Al contrario, martedì scorso la Lega Araba aveva condannato le azione militari della Turchia nel Nord dell’Iraq chiedendo ad Ankara di riconoscere e rispettare la sovranità del Paese arabo.
Ma il regime qatariota è uno storico alleato di quello turco, e anche sull’Egitto, con il suo sostegno alla Fratellanza Musulmana, si è dissociato dalla posizione dell’Arabia Saudita e del resto delle petromonarchie riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo che invece sostengono il regime di Al Sisi.
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