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Processo di pace? Il Paese Basco al bivio

Pochi giorni fa i media spagnoli e alcuni di quelli internazionali più attenti titolavano a volte entusiasti, a volte sospettosi, sulla nuova dichiarazione del collettivo dei prigionieri politici baschi, Eppk, che per la prima volta nella storia lascia liberi i suoi aderenti di accedere alle misure di “reinserimento” previste dall’ordinamento giudiziario spagnolo. Un passo storico, che apre la strada ad una possibile – ma affatto scontata – soluzione del problema della prigionia politica nel Paese Basco che non passi più dalla misura di ordine collettivo tradizionalmente richiesta – l’amnistia – ma da una ‘contrattazione’ individuale che prevede che il prigioniero riconosca la sua colpa e la sofferenza che le proprie azioni hanno generato.
Un passo non indifferente, da parte dei militanti dell’Eta e delle altre organizzazioni della sinistra patriottica incarcerati, soprattutto se si considera che il governo e gli apparati dello stato spagnolo non hanno in questi anni modificato di una sola virgola la propria politica carceraria ed hanno mantenuto contro una sinistra indipendentista in rapida trasformazione un fuoco di fila incessante. Proprio mentre alcuni esponenti politici baschi annunciavano che presto sarebbe giunta la ‘tanto attesa’ dichiarazione sul disarmo dell’Eta, ecco che il governo spagnolo ha scatenato l’ennesima retata contro la sinistra basca. Anzi, contro coloro che personalmente – in quanto avvocati o ex prigionieri – erano i protagonisti della lunga e difficile trattativa che ha portato il collettivo dei prigionieri allo storico e in alcuni casi contestato passo. L’altro ieri sono infatti finiti in manette due avvocati ed altri sei attivisti baschi, arrestati perché – neanche a dirlo – collaborerebbero con l’Eta alla gestione del collettivo dei prigionieri. Una retata, ha rivendicato il ministro degli interni Fernandez Diaz, in pieno continuità con quella che tre mesi fa ha portato all’arresto di decine di dirigenti del movimento popolare, Herrira, che sostiene e difende il rispetto dei diritti umani e politici dei prigionieri baschi.

Ed è notizia di questa mattina che il giudice dell’Audiencia Nacional Eloy Velasco ha proibito la manifestazione nazionale convocata per domani a Bilbao perché convocata da una piattaforma – Tantaz tanta – che altro non sarebbe che la ‘disciolta’ Herrira sotto mentite spoglie. Una vera e propria escalation. 

Perché questa provocazione da parte del governo spagnolo proprio mentre l’Eta e la sinistra basca stavano per offrire a Madrid su un piatto d’argento la “fine definitiva” del conflitto nelle forme violente e antisistema che ha assunto dagli anni ’60 al 20 ottobre del 2011, giorno in cui l’organizzazione armata dichiarò lo stop totale della propria attività?
Perché un gesto che potrebbe minare il processo di pace? Perché, è bene che lo si dica, non esiste nessun processo di pace in corso. Perché la sola possibilità che si apra una trattativa tra stato e sinistra basca ha portato i settori più estremisti e oltranzisti del Partito Popolare ad un passo dalla scissione, obbligando quindi l’esecutivo di Rajoy a mostrare i muscoli nei confronti degli odiati ‘separatisti’ e ad ordinare la retata dell’altro ieri e la proibizione di oggi.
Il PP spagnolo non è il Partito Conservatore britannico e la ‘Spagna’ profonda, nazionalista e sciovinista, non è la pragmatica Inghilterra. Se non si tiene conto di questo – cioè se non si analizza concretamente la condizione e l’ideologia della controparte – si rischia di rimanere imbottigliati per sempre in un tunnel senza uscita.
Il messaggio delle classi dominanti spagnole alla società basca è chiaro ed esplicito, e lo diventa man mano che la Izquierda Abertzale rinuncia a parti importanti del proprio bagaglio ideale e di lotta: non basta che la sinistra patriottica ceda progressivamente su molti punti, deve letteralmente capitolare. La Spagna non vuole trattare, vuole vincere. Se la sinistra basca, superato intelligentemente il livello dello scontro anche armato, non saprà indicare una via d’uscita da questo stallo che parta dal conflitto popolare e di classe, il rischio è di mandare al macero decenni di lotta esemplare e di generare divisioni fratricide sull’onda di quanto già accaduto in Irlanda del Nord.
All’interno della sinistra patriottica basca i dubbi, le incertezze e le criticità cominciano ad emergere in maniera aperta. Come ad esempio in questi due post pubblicati dal popolare blog ‘Borroka garaia da’.

http://borrokagaraia.wordpress.com/2014/01/09/que-alguien-pare-este-proceso-de-paz/

http://borrokagaraia.wordpress.com/2014/01/06/el-conflicto-no-tiene-solucion/

Ve ne traduciamo alcuni stralci perché a nostro avviso centrano perfettamente il problema, il dilemma di fronte al quale si trova oggi un settore importante della società basca, quello più combattivo e più coraggioso, e per questo più perseguitato e represso.

Qualcuno fermi questo processo di pace

Sono bastati 8 giorni del 2014 perché la precarietà si portasse via un membro della classe lavoratrice. (…) Il primo lavoratore morto durante il processo di pace del capitalismo quest’anno.
E’ che questo processo di pace in Euskal Herria sembra una guerra. Ieri (l’altroieri, ndt) è tornato a mostrarci la vecchia forma dei sequestri, della militarizzazione, della criminalizzazione, della rabbia e del dolore. Se questo è veramente il processo di pace, laddove la repressione si esprime a pieno, nel quale tutte le misure coercitive dello stato, inclusa la strategia dell’illegalizzazione, sono presenti, all’interno del quale al popolo basco non vengono riconosciuti né i suoi diritti ne le sue prospettive, questo processo di pace dovrebbe finire. Perché non è un processo di pace ma di guerra. E’ questo ciò con cui dobbiamo fare i conti, un processo di guerra.
Di fronte alla violenza dello stato, ad un nuovo vecchio tempo che continua ad avere le stesse caratteristiche di oppressione si possono fare analisi endogene per giustificare le proprie strategie, si può chiedere pace quando accade esattamente il contrario, si può indurire il proprio dogmatismo ma ciò non cambierà la realtà.
Oggi come oggi in Euskal Herria non c’è uno scenario di pace, uno scenario di libertà, e non esiste nulla di simile a tutto ciò. Per questo bisogna trasformare alla radice questo scenario e non normalizzarlo o consolidarlo. La domanda è come cambiarlo e per andare dove. Questa è la domanda che causa paralisi e con la quale non vogliamo confrontarci. Perché lo scontro, l’intensificazione del conflitto, la pressione verso gli Stati (spagnolo e francese, ndt) attraverso un’accumulazione delle forze non è compatibile con uno scenario di normalizzazione sottoposto alla legge imposta, a un processo di pace inesistente e a una conciliazione interclassista in piena crisi del sistema.
Certo, possiamo sempre ricorrere alla formula ‘ci colpiscono perché abbiamo ragione’. (…) Ma finché tutto continuerà a girare intorno ad un processo di pace e di soluzione che semplicemente non esiste sarà difficile compiere ulteriori passi verso la liberazione nazionale e sociale. (…)

Un processo di pace richiede come minimo due attori. Ovviamente le due parti che si scontrano in questo conflitto. E generalmente una terza parte che può aiutare fungendo da mediatrice. Questo è ciò che richiede un processo di pace. (…) Una parte sola non può realizzare un processo di pace perché non può fornire una soluzione duratura al conflitto in maniera unilaterale ne può portare alla pace.
E’ importante sottolineare la differenza tra pacificazione e processo di pace. La pacificazione è l’eliminazione progressiva degli elementi di violenza nel conflitto, ma non si tratta mai di un processo di pace, giacchè si può avere una pacificazione dopo una vittoria militare. Essendo la pacificazione un elemento del processo di guerra e non di pace, per imporre e normalizzare ciò che prima si perseguiva attraverso l’uso della forza. (…)
In Euskal Herria non esiste nessun processo di pace. Allora perché la classe politica di questo paese (i Paesi baschi, ndt) insiste nel chiamare processo di pace qualcosa che non esiste, il che è dimostrato graficamente dagli ultimi arresti?
La risposta a questa domanda chiude l’impasse nel quale siamo immersi.

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Il conflitto non ha soluzioni

(…) Viviamo nell’epoca delle immagini nella quale le parole perdono di significato, valore e peso. Sono generalmente stratagemmi per ottenere un certo impatto o risultato. Un funzionamento molto simile a quello delle droghe. Da quando ho l’età della ragione sento parlare di soluzione del conflitto. Soluzione al conflitto politico tra Euskal Herria e gli stati spagnolo e francese. Soluzione a tutto ciò che ne deriva come il “problema della violenza”, “il problema dei prigionieri” ecc.
La maggior bugia sul conflitto politico è che possa avere una ‘soluzione’. Non ce l’ha. (…)

Di certo c’è che la soluzione non arriverà attraverso le soluzioni ma attraverso il problema, il conflitto. Solo una vittoria nel conflitto porterà la soluzione. Perché il conflitto in Euskal Herria, così come tutti i conflitti politici e sociali si producono tra elementi antagonisti e inconciliabili. E per quanto originali e genuini si possa essere noi baschi non possiamo sfuggire alle leggi della storia. Il motore della storia è la lotta di classe e dei popoli e non c’è nessuno che possa confutarlo con dati da mettere sul tavolo.
Il conflitto non avrà mai una soluzione perché si arrivi di mutuo accordo ad essa. Tutti i passi verso la risoluzioen del conflitto sono falsi quanto una moneta di legno se ciò non incide e non è il risultato di una vittoria di una parte sull’altra. Gli accordi da prendere, i consensi da dare, i negoziati da portare avanti sono il riflesso diretto del rapporto di forza tra oppressore e oppresso. Di questa lotta tra elementi opposti.
La soluzioen del conflitto è la sconfitta degli stati spagnolo e francese per quanto riguarda i loro infami interessi su Euskal Herria. La liberazione nazionale. Solo questa potrà assicurare che il popolo basco possa decidere del proprio futuro e farlo in relativa pace. Giacché la pace totale arriverà solo quando gli interessi della borghesia saranno subordinati a quelli della maggioranza della popolazione. 

Chiedere ‘soluzione al conflitto’ è come chiedere a una nube di tempesta di non lasciar cadere la pioggia mentre paradossalmente chidere la soluzione al conflitto in realtà vuol dire intensificare il conflitto fino a vincere.
(…) In definitiva,  la soluzione al conflitto verrà solo dall’incremento esponenziale del conflitto.
Questo è il dilemma. Prendere la pastiglia allucinogena oppure scontrarsi con la realtà. 

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