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Mmh, svizzero? No, europeo!

La Svizzera è al centro dello “scandalo” europeo per il voto referendario che ha sancito (con appena il 50,3% dei votanti) la voglia di restringere al massimo i flussi migratori verso Zurigo. Scandalo nello scandalo, il cantone in cui l’ostilità agli immigrati – “frontalieri” italiani compresi – è stata maggiore è quello del Ticino, da sempre considerato seconda patria dai milanesi ricchi o luogo di lavoro interessantissimo per quelli poveri. Patetico e indisponente quel Roberto Maroni che piange  la disgrazia dei migranti “lumbard” che ancora pretende la forca per quelli “afro”.

E dire che governo, organizzazioni padronali e sindacati si erano schierati tutti per il “no”. L’Unione Europea l’ha presa malissimo e ha immediatamente aperto il fuoco di sbarramento, in modo da favorire un drastico ripensamento nel “sentire comune” elvetico. Non solo ha bloccato le trattative sul rifornimento elettrico del paese, ma ha anche ribadito che non ci può essere «divisione tra la libera circolazione delle persone e quella dei capitali». Principio chiarificatore, dobbiamo dire, della “filosofia” che anima la Ue e che – si ritiene, non a torto – possa essere chiaramente inteso anche dagli “svizzeri qualunque”. Per un paese che fonda sull’importazione, custodia e riciclaggio (pardon, “investimento”) dei capitali internazionali, si tratta infatti di una minaccia mortale.

Bisogna dire che l’Unione Europea ha reagito con tanta durezza anche perché le quote maggioritarie di lavoratori “stranieri” in Svizzera è costituta da tedeschi e in seconda posizione dai francesi. Solo terzi gli italiani, contrariamente a quel che si poteva immaginare.

Ma gli elvetici respingono con fermezza l’accusa di essere razzisti e xenofobi. Franco Ambrosetti, per esempio, presidente della Camera di Commercio del Canton Ticino, ha provato a spiegare, in televisione, che tra le varie ragioni del “Sì” al referendum vi sarebbe anche la delusione per la fine del segreto bancario e il senso di rivalsa nei confronti dell’Unione Europea, che ne ha determinato la sua fine. Questione di soldi, insomma; ma davvero mal concepita la “vendetta” sulle persone. Perché è chiaro a tutti che la Svizzera, senza liberissima circolazione dei capitali, diventa una normale regione alpina potenzialmente depressa.

Però, fanno notare anche i giornalisti di Ticino Online, “nel cuore del potere economico-finanziario, il triangolo Ginevra-Zurigo-Basilea (passando per Zugo), a prevalere sono stati i contrari all’iniziativa dell’UDC”. Insomma: i banchieri e i finanzieri, per quanto “delusi” potessero essere, sono fermamente contrari al quesito referendario. “Anche perché per l’Associazione Bancaria Svizzera e per le grandi banche svizzere di fatto il segreto bancario è ormai superato. Ed è da tempo che chiedono al Governo elvetico una posizione chiara”.

E quindi, perché? In un paese dove il 35% della popolazione è di origine straniera, ed è alta anche la percentuale dei “residenti non indigeni”, il no alla libera circolazione delle persone suona insomma come un “non ce la facciamo oltre questo limite”. Troppe facce da immigrati? No.

Sentite la spiegazione: “In materia di libera circolazione ‘E’ avvenuto tutto troppo in fretta’. Te lo raccontano le cassiere, gli operai, gli impiegati che cercano un’occupazione e raccontano di colloqui di lavoro che minano la dignità umana. ‘Mortificante sentire che con 4.000 franchi si possono permettere di assumere due frontalieri’. Te lo raccontano coloro che sono stati semplicemente sostituiti con dei frontalieri a metà prezzo. A chiedere a voce alta un cambiamento sono proprio loro, i più deboli, in una lotta tra poveri che sta lacerando la società ticinese”.

Eccolo qui il salario, questo sconosciuto! Semplice come un’equazione matematica a due sole incognite: se il salario per uno svizzero è (ed è rimasto…) a 4.000 franchi (oltre 3.000 euro, mica poco!), e con quella cifra si prendono due italiani (ma anche due francesi o un tedesco e mezzo), “normale” che le imprese scelgano la seconda soluzione. Tanto più se – al contrario di quanto accade qui da noi con africani, arabi, sudamericani, asiatici, ecc – non c’è neppure un problema di lingua (tedesco, francese e italiano – più il romancio – sono lingue ufficiali).

La conferma in numerosi e pensosi editoriali: “I motivi di questo risultato di ieri (domenica, ndr) sarebbero da ricercare soprattutto nel fenomeno del dumping salariale, nella sostituzione della manodopera indigena a favore di quella straniera in un Paese messo velocemente sotto pressione. Gli svizzeri, che abitano in un paese particolare e che ha i suoi equilibri, hanno semplicemente voluto dire: trovate un’altra strada, questa è troppo dolorosa, la crescita economica non è tutto”.

È addirittura inevitabile che il processo di svalutazione del valore del lavoro (anche e soprattutto sul piano salariale) sia la prima manifestazione concreta, socialmente percepibile, della “libera circolazione” di persone. Quella dei capitali, infatti, riguarda un piano “aereo”, intangibile e inavvertibile per chi “pratica le strade” – come si usa dire in parte del movimento antagonista nostrano, come se fosse un antidoto al riformismo, anziché un piano di intervento necessario ma da solo insufficiente. A meno che non “cada sulla terra” sotto forma di investimenti (là dove conviene, dove il costo del lavoro è più basso, la rete infrastrutturale più efficiente, le regole per imprese più lasche, la tassazione minore, ecc); oppure non “riprenda il volo” (delocalizzazione) quando queste condizioni non sono sufficientemente soddisfatte.

Ed è altrettanto inevitabile che, dopo aver devastato la formazione sociale dei paesi deboli (i Piigs che “vivevano al di sopra dei propri mezzi”), ora l’onda lunga dell’equiparazione salariale arrivi a lambire anche i paesi ricchi. Addirittura il più ricco, per quanto fuori dall’Unione Europea. Naturalmente si tratta di un’equiparazione al ribasso, come ben sanno greci, italiani, spagnoli, portoghesi, ecc. Certo, il divario tra il salario “piigs” e quello svizzero (o tedesco) è ancora ampio, ma il movimento è chiaro: in Svizzera (e in Germania) i salari si sono congelati al momento stesso dell’entrata in vigore della moneta unica, dell’entrata a regime dei trattati di Shengen. Anche per loro il momento del “calo”, in termini reali, oltre che di potere d’acquisto, si è avvicinato molto.

Ma la prima reazione – fermiamo l’integrazione e la libera circolazione – è chiaramente “reazionaria”, un tentativo disperato di volgersi indietro alla ricerca del buon tempo perduto, di impossibili “difese nazionali”. Altro è mettere in discussione “la macchina dell’integrazione capitalistica”, a partire dalla sua forma “statuale” – l’Unione Europea, appunto, non lo spazio sociale chiamato Europa – per andare oltre il processo di impoverimento generale del lavoro.

Anche nel 1992 la Svizzera aveva infatti detto “No” allo Spazio Economico Europeo. Abituati più di noi a ragionare capitalisticamente, sugli effetti economici di determinati movimenti che – qui da noi – vengono trattati sempre in modo retorico, gli elvetici avevano “visto lungo”.

Ma oggi la Svizzera si viene e a trovare in una condizione più difficile, perché quel processo è andato molto più avanti. “L’Unione europea aveva approvato la sottoscrizione di accordi bilaterali da noi propugnati – spiega Moreno Bernasconi, editorialista del Corriere del Ticino – per il semplice fatto che la Svizzera manteneva l’obiettivo di aderire all’UE. Essendo ormai questo obiettivo decaduto, difficilmente Bruxelles potrà giustificare agli occhi dei Paesi membri dell’UE un trattamento speciale per la Svizzera, che non è membro e neppure intende diventarlo”.

Non basta. Nel momento in cui Svizzera ed UE si metteranno al tavolo delle trattative cosa succederà? “Il dilemma, scrive Bernasconi, è grande: se cede con Berna, come potrà evitare che altre falle si aprano nei confronti di alcuni importanti membri (vedi Regno Unito)”.

Paradossale ma non troppo. Sono i lavoratori dipendenti (di ogni professione, con qualsiasi contratto, occupati o disoccupati) dei paesi ricchi quelli che sentono il peso negativo maggiore dell’”integrazione” economica a tappe forzate, che demolisce sia il valore del salari che il “welfare” relativo al modello sociale in via di estinzione.

È intorno a questo nucleo di “blocco sociale” che si gioca la partita residuamente “politica”: o verso il cambiamento globale (“rivoluzionario”), passando per la rottura del meccanismo statuale-economico in formazione, oppure verso la reazione senza prospettive (à là Maroni), al seguito degli immortali “padroncini” senza mercato né innovazione.

Si chiama Svizzera, ma parla di noi.

 

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