La politica di potere, quella peggiore, è sangue e merda. La sua versione più ecologicamente compatibile esprime un’essenza olfattivamente modificata, ma la sostanza fetida resta. Il riferimento non ha confini geografici, accade ovunque. Lì dove il potere è più infame e autocratico dà il peggio di sé. Nelle lordure di Stato per eccellenza come blitz, massacri e golpe e nelle stragi sul lavoro, le silenziose e lente e quelle clamorose definite incidenti. Uno degli spettacoli più degradanti per il cittadino che lo subisce è la saga della discolpa da parte del potente. Discolpa non nell’accezione linguistica portoghese dove il termine esprime le sacrosante scuse. Magari incapaci a lenire alcun dolore, ma perlomeno contrite e dignitose. La discolpa del potere è appunto l’uscita dalla responsabilità e, anche di fronte a tragiche evidenze che inchiodano, la ricerca dello svicolamento balbettando giustificazioni. Restando sul tragico tema dell’ecatombe lavorativa dei minatori di Soma, ieri la dirigenza della Compagnìa mineraria turca s’è esibita al cospetto della stampa in una sequela di discolpe. Il presidente della Holding Gürkan s’è autoassolto da una delle accuse della popolazione locale: non aver disposto adeguate misure di sicurezza allestendo le camere di rifugio per i minatori in caso d’incendio e fughe di gas.
I luoghi dotati di bombole d’ossigeno e cibo dove i disgraziati che lì cercano riparo possono sopravvivere per un certo periodo in speranzosa attesa dei soccorritori. Alla discolpa di Gürkan offre un grande appiglio la normativa turca che non obbliga i proprietari (o gli affittuari) delle miniere di realizzare queste isole di salvataggio. Caso quasi unico al mondo, come in Afghanistan e in Pakistan, dove i lavoratori muoiono bambini, l’abbiamo visto nell’ennesimo incidente del 30 aprile scorso nella provincia di Samangan. Perciò il magnate del carbone turco se ne lava le mani, il governo fa spallucce e circa 300 minatori crepano asfissiati dal grisù. Ma nel cinico e insultante gioco delle parti non si finisce qui. Per mostrarsi zelante verso il suo padrone – come il giorno avanti aveva fatto Yusef Yerkel verso il proprio sultano – il capo manager della Soma Holding Akın Çelik lanciava ai giornalisti la domanda su cosa avessero fatto loro trovandosi in miniera in caso di pericolo: cercare l’uscita o restare lì ficcandosi in una camera-rifugio? Come a dire che la mancanza delle strutture di sicurezza era un particolare superfluo, perché l’istinto primario è quello della fuga e la tendenza è non usarle. Insinuando che chi non era scappato immediatamente s’era messo in trappola da solo. E qui la discolpa diventa accusa: chi è causa del suo mal…
Anche il mite (all’apparenza) ministro dell’Energia Taner Yildiz ha puntato molto sul tema che 363 minatori su 787 erano stati evacuati. Un’esplicita dimostrazione dell’efficienza dei soccorsi e del senso di dovere delle autorità. La prima discolpa, col solito stile dell’elefante nella cristalleria, l’aveva annunciata Recep Tayyip Erdoğan nel discorso iniziale tenuto a Soma, davanti al pianto collettivo di omoni col caschetto giallo, vecchie e giovani donne velate. Il premier ricordava la normalità della morte nel mestiere del minatore, una tragedia immortalata dalla Storia e sancita dal Fato contro cui nulla si può. Una lezione di giustificazionismo, una meschina recita che vuole cristallizzare il dramma e chi lo subisce, consentendogli al massimo il pianto e veloci esequie per i cari senza colpo ferire, senza nulla chiedere. Relegati al passivo ruolo delle comparse gettate nella cassapanca delle marionette dismesse, facilmente sostituibili quando qualche pupazzo si rompe. Questo è Erdoğan e il suo Islam liberista, ma questo è il turbocapitalismo occidentale e orientale. Dove ideologie, fedi e partiti politici non mostrano differenze.
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