Chiuse le urne si è aperta subito la discussione su “come cambiare l’Unione Europea”. I leader dei 28 paesi dell’Unione riuniti ieri a Bruxelles hanno dovuto rapidamente mettere da parte la discussione sulle nomine – dal presidente della Commissione a quella del “ministro degli esteri”, dal presidente dell’Eurogruppo a quello dell’Unione – per fare i conti con le divergenti prospettive imposte dal voto di domenica.
L’”ondata euroscettica”, per quanto prevista, è stata potente. Più forte come espressione della destra nazionalista che non come “sinistra radicale” (zona magmatica dove prevale spesso la disussioni in termini ideologici invece che sugli interessi reali, di classe), ha obbligato anche i singoli governi ad anteporre il “rimpatrio delle competenze” rispetto ad ulteriori strette unitarie. L’uso dei sinonimi è diventato l’ossessione degli spin doctor di regime, ma “rimpatro di competenze” non significa nient’altro che “recupero di sovranità”.
Alla testa di questo fronte apertamente disgregatore dell’Unione è come sempre la Gran Bretagna, ma con un’accelerazione e una radicalità imposte congiuntamente dal successo interno dei “secessionisti antieuropei” (l’Ukip di Nigel Farage) e dalla pressione statunitense per portare a firma il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). È questa, in piccolo, la condizione in cui si viene a trovare tutta l’Unione Europea. Erosa all’interno dai processi di crisi economica che diventa disgregazione sociale, alimentando per ora soprattutto la revanche nazionalista e in misura molto minore la protesta di classe; messa all’angolo dal “dinamismo” statunitense, rampante sul piano degli accordi commerciali e pesantemente aggressivo su quello diplomatico-militare (l’evoluzione della situazione in Ucraina e il conseguente peggioramento drastico dei rapporti con la Russia non rientra certamente negli interessi strategici della Ue).
Ma non sono soltanto gli inglesi, a questo punto, a pretendere un recupero di autonomia nazionale. Svezia, Olanda, Finlandia, Polonia, Ungheria sono – con accenti e per politiche interne anche molto differenti – sulla stessa linea. Per non dire della Francia del tramortito Hollande, che può usare soltanto una rispolverata della grandeur per evitare di sciogliere il Parlamento e consegnare le chiavi del paese all’avanzata del Front Nationale.
Anche chi insiste sul mantenimento del percorso di costruzione istituzionale dell’Unione – come l’Italia renziana, la Spagna e altri minori – è obbligato dagli umori interni a chiedere un “cambio di passo”, un abbandono dell’austerità in salsa germanica, margini maggiori di sforamento dei parametri di Maastricht, tempi più lunghi per la riduzione del debito pubblico (rispetto a quelli previsti dal Fiscal Comact), scomputo della spesa per investimenti. Da questo lato, insomma, si vorrebbe un’Unione Europea meno arcigna e spilorcia, apparentemente più “solidale” (nelle politiche sull’immigrazione, nella condivisione dei rischi finanziari, ecc), pur se sempre molto attenta nelle politiche di bilancio.
Al centro resta praticamente sola la Germania delle “larghe intese”. Tutta la sua strategia ha fin qui funzionato sul piano della crescita economica interna, ma al prezzo di un aggravamento della crisi in tutti i partner continentali (tranne che in quei paesi est europei entrati a fare stabilmente parte della propria filiera di “contoterzisti”). L’idea forte di un legame strutturale con la Russia – fornitore privilegiato di gas e petrolio – si sta rapidamente disgregando sotto le cannonate ucraine comandate da Obama.
Cambiare l’Unione Europea è dunque una necessità avvertita da tutti, ma declinata in almeno tre direzioni divergenti. E senza nemmeno calcolare la quarta via rappresentata dalla debolissima “sinistra europea”, i cui punti programmatici – genericamente “keynesiani” – sono abbastanza facilmente riassorbibili dentro lo schema renziano di “riforma dell’Europa”.
Si apre dunque una fase di scontro interno all’Unione in cui molti interessi nazionalistici saranno contrabbandati sotto modalità comunicative “riformiste” per contrapposizione a quelle apertamente “sovraniste”. In ogni caso, il processo di costruzione comunitaria fin qui gestito col “pilota automatico” subisce un colpo duro, tanto da richiedere un passaggio politico dagli esiti niente affatto scontati.
Si vede a questo punto quanto sia stato miope chi – a sinistra – ha puntato tutto su un’impostazione “riformista”, tutta incentrata solo sulla critica dell'”austerità”, anziché di rottura in campo europeo. Tutti sono ora “riformisti”, quindi sarà per loro quasi impossibile esprimere e far capire una distinzione reale rispetto alle impostazioni dominanti.
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