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Turchia: niente ergastolo a Pinar Selek, a processo ‘Occupy Gezi’

Ieri nel giro di poche ore dalla Turchia sono arrivate due notizie, una buona e l’altra cattiva. Anzi, pessima.

Iniziamo da quella positiva. La Corte di Cassazione di Ankara ha annullato la sentenza che condannava all’ergastolo Pinar Selek, una sociologa, femminista e attivista per i diritti umani rifugiatasi in Francia ormai dal 2009 vista la persecuzione di cui è oggetto da parte delle autorità turche. La buona notizia lo è soltanto a metà, visto che Pinar Selek dovrà subire presto un nuovo processo. E comunque l’attivista ha già trascorso tre anni nelle tremende carceri turche – dove è stata torturata e violentata – perché accusata di aver partecipato nel 1998 ad un attentato in un mercato di Istanbul che provocò la morte di 7 persone. Una pena già scontata per un attentato che non c’è mai stato, visto che già nel 2003 una perizia attribuì l’esplosione ad una fuga di gas, il che non ha evitato che la caccia alle streghe contro la ‘terrorista’ continuasse e che all’inizio dello scorso anno un tribunale la condannasse addirittura all’ergastolo.
D’altronde la sociologa è tuttora nella lista nera del governo dell’Akp e del suo apparato repressivo. Sotto accusa ci sono le sue posizioni considerate troppo vicine a quelle della guerriglia curda e del Partito dei Lavoratori del Kurdistan in particolare. E’ proprio per non aver voluto rinunciare al suo lavoro, di carattere scientifico oltre che politico, con le comunità curde, e per essersi rifiutata di fornire informazioni sugli attivisti curdi che la sociologa è diventata oggetto dell’implacabile vendetta dello Stato Turco. Pinar Selek, che naturalmente si tiene ben alla larga dal territorio turco, dovrà essere di nuovo processata, e sebbene per lei la Corte di Cassazione ha escluso l’ergastolo potrebbe subire comunque una pesante, ingiusta e assurda condanna.
Una sorte simile potrebbe toccare nei prossimi mesi a 26 membri della cosiddetta “Piattaforma Taksim Solidarietà” che da oggi saranno oggetto di un processo – alcuni di loro rischiano anche 15 anni di reclusione – accusati di gravi reati nell’ambito della mobilitazione ambientalista che la scorsa estate si attivò prima per salvare il Parco Gezi dalla speculazione e dalla cementificazione, e che poi si tramutò in un moto popolare contro le politiche liberiste e autoritarie del governo di Recep Tayyip Erdogan. Il coordinamento di attivisti, sostenuto da più di 100 organizzazioni sociali, politiche e sindacali turche, si formò negli ultimi giorni di maggio del 2013, dopo lo sgombero violento da parte della polizia di alcune centinaia di attivisti che si erano accampati nel parco a poca distanza dalla Piazza Taksim di Istanbul per salvarlo dalla distruzione.
Gli attivisti di “Taksim solidarietà”, tra cui Mucella Yapici, dirigente della Associazione degli architetti e degli ingegneri (Tmmob) e Ali Cerkezoglu, presidente dell’Ordine dei medici, furono arrestati l’8 luglio a Istanbul durante un corteo diretto proprio al Parco Gezi chiuso dalla polizia per poi essere rilasciati una settimana dopo, solo dopo esser stati accusati di associazione a delinquere e di aver partecipato a una manifestazione non autorizzata.
Secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani delle decine di migliaia di persone arrestate l’estate scorsa in Turchia per aver partecipato alle proteste contro il governo, ben 5500 sono finite sotto processo e alcune di loro hanno già subito pesanti condanne, mentre gli esponenti delle forze dell’ordine responsabili di numerosi omicidi di manifestanti e passanti sono finora stati coperti da una impunità completa.
Nel denunciare che il governo turco ha imboccato il ‘sentiero dell’intolleranza’ – in realtà mai abbandonato dalle autorità di Ankara dalla fondazione della Repubblica in poi – nel corso di una conferenza stampa Amnesty International ha denunciato alcuni casi eclatanti di brutalità commesse dalle forze dell’ordine. Come quando il 3 giugno del 2013, Hakan Yaman è stato picchiato e gettato tra le fiamme da quattro poliziotti e da un uomo in borghese. Nonostante la scena sia stata immortalata da un telefonino e il numero di matricola del mezzo blindato fornito di idrante che gli agenti scortavano fosse ben visibile la polizia di Istanbul si è rifiutata di rivelare l’identità dei poliziotti colpevoli. 
Non solo manifestanti e attivisti politici e sindacali, ma anche molti giornalisti sono finiti in manette perché seguivano gli eventi dei mesi scorsi violando una censura che recentemente si è fatta ancora più ferrea con il bavaglio al web. E addirittura alcuni medici sono stati sottoposti a provvedimenti disciplinari e, in due casi, sottoposti a indagine penale semplicemente per aver fornito i primi soccorsi negli ambulatori da campo allestiti durante le proteste della scorsa estate la cui repressione ha prodotto più di 8000 feriti. 
A Smirne, la terza città del paese, 29 ragazzi giovanissimi sono sotto processo per aver “incitato il pubblico a violare la legge” semplicemente per aver postato su Twitter informazioni sulle manifestazioni contro il governo.

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