Il ‘sultano’ va avanti come un treno. Dopo aver resistito ai moti popolari più estesi e determinati che la Turchia abbia vissuto negli ultimi anni a forza di galera, censura e spari sulla folla, il capo indiscusso dell’Akp ha prima vinto le elezioni amministrative e poi quelle presidenziali, al primo turno, fondamentali per la trasformazione del paese in una repubblica presidenziale con un ulteriore accentramento del potere nelle sue mani.
Ieri un’ulteriore passo avanti in questo senso, con la scelta dell’ex ministro degli esteri di Ankara Ahmet Davutoglu alla carica di primo ministro. Inoltre il comitato esecutivo centrale dell’AKP ha deciso di proporre il nome di Davutoglu per la presidenza del partito, che lo eleggerà formalmente nel corso del congresso straordinario previsto ad Ankara il 27 agosto prossimo. Una volta eletto, l’ex titolare della diplomazia sarà incaricato di formare il nuovo gabinetto già a partire dal 29 del mese.
Una sconfitta su tutta la linea dei competitori di Erdogan all’interno della formazione politica liberal-islamista – in particolare dell’ex presidente Abdullah Gul – che le manovre della confraternita di Fetullah Gulen non sono riuscite più di tanto a indebolire.
Davutoglu è stato uno dei maggiori responsabili della politica turca di destabilizzazione della Siria e di sostegno aperto a varie fazioni ribelli, islamisti e jihadisti compresi. E, curiosa coincidenza, proprio ieri un episodio ha ricordato al mondo l’essenza della politica di Ankara in Medio Oriente.
Fonti curde e alcuni media turchi hanno denunciato che un gruppo di oltre 100 yezidi in fuga dalle persecuzione delle bande dello ‘Stato Islamico’ che erano riusciti a raggiungere il confine con la Turchia sono stati presi di mira dai soldati di Ankara che presidiano la frontiera. Una frontiera chiusa – non è la prima volta agli sfollati curdi o turcomanni scappati dal nord dell’Iraq ma spesso aperta quando si tratta di far riparare in territorio turco gruppi di combattenti jihadisti, con i feriti dello Stato Islamico spesso curati negli ospedali turchi delle regioni di confine.
All’altezza del vollaggio di Roboski, nel distretto di Uludere a Sirnak, i militari hanno addirittura aperto il fuoco sul gruppo di sfollati nei pressi del lugo dove il 28 dicembre del 2011 l’aviazione di Ankara bombardò un convoglio di ‘contrabbandieri’ curdi facendo una strage (34 i civili trucidati). Contro gli sfollati yezidi i soldati turchi hanno sparato non solo gas lacrimogeni ma anche proiettili veri causando alcuni feriti, per fortuna lievi. Informati dell’episodio dai residenti mercoledì sera il parlamentare dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli, sinistra curda e turca) di Sirnak Faysal Sarıyıldız, ed il co-sindaco della municipalità di Uludere e la popolazione del villaggio di Roboski si sono recati al confine finché, dopo una lunga trattativa, al gruppo di rifugiati è stato consentito di varcare la frontiera. Il gruppo di rifugiati è stato portato successivamente a Roboski e le persone colpite dai lacrimogeni all’ospedale di Uludere.
Al momento nessuno dei tanti paesi che affermano di aver mobilitato i loro eserciti e una impressionante macchina umanitaria per aiutare i curdi yazidi a scampare alle persecuzioni e alla pulizia etnica dei fondamentalisti sunniti dell’Isis ha denunciato quanto accaduto ad Uludere e chiesto al governo turco di farla finita con il sostegno alle organizzazioni jihadiste che appestano il Medio Oriente.
La scelta di Davutoglu non sarà senza conseguenze. Il capo dell’opposizione nazionalista e di centrosinistra, Kemal Kilicdaroglu, ha ironizzato sul fatto che il nuovo premier altro non sarà che una marionetta nelle mani di Erdogan. Ma conoscendo la traiettoria politica del capo del governo scelto dal ‘sultano’ come suo successore pare di capire che non sarà esattamente così.
Nato in una famiglia religiosa di Konya, la capitale del conservatorismo sunnita turco, Davutoglu è un islamista ancora più intransigente del suo predecessore. Quando era alla guida della diplomazia turca il futuro leader dell’Akp è stato il teorico della proiezione estera “neo-ottomana” del Paese, e della filosofia «zero problemi con i vicini» che in realtà in Siria si è trasformata in una guerra aperta contro il governo di Damasco. Una strategia che ora però sta mettendo a rischio i confini della Turchia e che potrebbe ritorcersi contro il paese, se e quando le bande dell’Isis dovessero rivolgersi contro i propri benefattori.
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