Il governo degli Stati Uniti ha confermato che le forze armate dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti hanno portato a termine alcuni raid aerei in Libia contro le postazioni dei miliziani islamisti che stanno combattendo contro il governo di Tripoli e che nelle ultime settimane si sono impossessate di importanti territori del paese mettendo di fatto in scacco il già debole governo di Tripoli. La notizia era sta rivelata pochi giorni fa dal New York Times citando alcuni funzionari degli Stati Uniti. Naturalmente sia l’Egitto che gli Emirati hanno smentito la notizia.
Intanto la situazione del paese si fa sempre più grave. “Avevo sempre escluso la possibilità di una guerra civile, ma la situazione è cambiata” ha detto poche ore fa all’Onu l’ambasciatore libico. “Nel passato, gli incidenti legati alla sicurezza erano limitati, isolati e rari. Ma oggi gli scontri oppongono due gruppi che usano armi pesanti. Ogni gruppo ha i propri alleati nelle altre regioni del paese” ha detto Ibrahim Dabbashi, rivolgendosi al Consiglio di sicurezza. La situazione in Libia è “complicata” – ha aggiunto – e lo è diventata “ancor di più dopo il 13 luglio”, ovvero all’avvio dei combattimenti su più ampia scala fra le milizie in lotta per il controllo dell’aeroporto di Tripoli. Uno scenario che “potrebbe sfociare in una guerra civile in piena regola se non stiamo molto attenti e saggi nelle nostre azioni, e questo vale per tutti” ha sottolineato Dabbashi.
Da parte sua il governo di Tripoli chiede il dispiegamento di una “forza di mantenimento della pace” per consentire il disarmo delle milizie. Ma ormai la sua autorevolezza è ridotta al lumicino. Di fatto la Libia ha ormai due parlamenti e due primi ministri, ed è divisa come minimo in 3 parti.
Una parte importante – aeroporto compreso – della capitale Tripoli è in mano ai miliziani islamisti di Misurata che hanno eletto anche un loro uomo alla carica di premier, scelto dal parlamento uscendo con una vera e propria secessione: Omas al-Hassi, a capo di un cosiddetto “governo di salvezza nazionale”.
A Bengasi comandato gli islamisti di un’altra fazione, quelli del ‘califfato’ proclamato dai jihadisti di Ansar al Sharia, che nei giorni scorsi ha rivolto un appello ad altre milizie islamiste del paese affinché si uniscano sotto una sola bandiera contro “l’occidente e i suoi piani”.
E poi a Tobruk si è esiliata una parte del parlamento eletto il 25 giugno in un clima già di guerra civile, che naturalmente non riconosce la legittimità istituzionale di al-Hassi scelto da un parlamento che non dovrebbe più esistere. Il capo del governo provvisorio Abdallah al-Thani ha definito “illegali la riunione e le decisioni” dell’Assemblea uscente.
Un paese così diviso e in preda al caos e agli scontri etnici e tribali è facile preda di nuove potenze regionali, a partire dall’Egitto. Il cui governo, presieduto dal generale golpista Abdel Fattah al-Sisi, afferma di aver varato un piano per stabilizzare la Libia che verrà presto presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu» e che prevede una serie di misure che vanno dal cessate il fuoco al disarmo delle milizie. Dopo un incontro con il parlamento di Tobruk Sisi riferirà anche all’Unione africana e al governo spagnolo, «in vista di un summit dei Paesi amici della Libia, il 17 settembre a Madrid». I Paesi confinanti, riunitisi lunedì al Cairo – Ciad, Tunisia, Algeria e Sudan – hanno accettato il progetto e riconosciuto la legittimità del Parlamento eletto a giugno sconfessando le altre assemblee e governi paralleli.
Ma intanto ben 6 ministri del governo provvisorio si sono dimessi lamentando impotenza e accusando il premier di aver assunto alcune iniziative senza consultarlo.
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