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Frontiere europee, un passo verso la chiusura

La fine della libera circolazione dei cittadini europei comincia farsi strada nell’establishment che governa i paesi dell’Unione. Non è più un bandierone razzista agitato da leghisti e fascisti vari.

Naturalmente l’establishment europeista è “perbene” per autodefinizione, e quindi non usa quella terminologia. Agisce per sentenze emesse da un regolare tribunale e non ammette nemmeno per scherzo che questo sia un chiudere le frontiere. Ma lo è.

La Corte europea di Giustizia, ha deciso ieri – su ricorso presentato da un tribunale tedesco – che un cittadino dell’Unione “economicamente inattivo” non ha diritto ad aiuti sociali nel paese dell’Unione di residenza, se questo è diverso da quello di cittadinanza.

Il principio legale sembra complesso, ma se andiamo a vedere il caso concreto da cui origina la sentenza tutto diventa più chiaro. Madre e figlio, di cittadinanza rumena ma residenti a Lipsia, avevano chiesto le “prestazioni assicurative di base” previste dal welfare tedesco; ma il Jobcenter locale gliele aveva rifiutate. Motivazione: la madre era disoccupata (e questo avrebbe legittimato la richiesta), non possedeva particolari competenze, ma non risultava stesse cercando attivamente un’occupazione. Il rifiuto è stato naturalmente “appellato”, fin quando non è arrivato all’attenzione della Corte europea, chiamata a pronunciarsi in base alla direttiva denominata “Cittadino dell’Unione”.

Secondo questa direttiva, il “paese ospitante” deve garantire prestazioni sociali «a condizione che le persone ‘economicamente inattive’ dispongano di risorse proprie sufficienti», almeno nei primi cinque anni di residenza. La ragione è chiara: «Si intende in tal modo impedire che cittadini (…) economicamente inattivi utilizzino il sistema di protezione sociale dello Stato ospitante per finanziare il proprio sostentamento». Se qualcuno insomma pensa che non esistendo un “reddito garantito” nel proprio paese, se lo va a cercare in uno più ricco, ha fatto male i suoi conti.

I due rumeni erano in Germania da meno di cinque anni e quindi non potevano chiedere il sussidio. «La Corte statuisce che la signora Dano e suo figlio non dispongono di risorse sufficienti e non possono pertanto rivendicare il diritto di soggiorno in Germania in forza della direttiva Cittadino dell’Unione».

Formalmente non fa una piega o quasi (secondo il principio dell’azzeccagarbugli), ma la sentenza arriva proprio mentre diversi paesi stanno studiando la possibilità di mettere un freno drastico alla libera circolazione delle persone, mentre naturalmente merci e capitali possono andare dove li porta il cuore del profitto. E la prima misura, la più semplice, è chiudere l’accesso al welfare, che è ovviamente più “includente” nei paesi più ricchi, mentre quasi non esiste in quelli di nuova associazione o è in via di smantellamento nei Piigs.

Esplicito il commento proveniente dal premier inglese Cameron: «Una cosa messa in luce dalla sentenza è che la libertà di movimento, come hanno detto il premier e altri, non è un diritto indiscusso». Per lui, infatti, tutto si riduce a un divieto del “turismo del welfare”. E la stessa Germania ha in questi giorni approvato robusti cambiamenti alla legge sull’immigrazione, limitando a soli sei mesi il periodo di soggiorno per un cittadino europeo proveniente da altri paesi della Ue entro i quali può restare anche senza avere un’occupazione. Passato questo periodo, dovrà dimostrare di avere «una possibilità ragionevole» di trovare un lavoro.

Sulla “ragionevolezza”, naturalmente, si potranno aprire discussioni infinite. Ma una cosa appare chiara: la risposta dei singoli paesi – e anche della Corte europea – davanti all’avanzata dei partiti euroscettici, alcuni dei quali apertamente razzisti (l’Ukip in Gran Bretagna, ma in qualche misura anche il successo di Alternative fur Deutschland presenta sfumature similari) – è di restringere nuovamente i confini infracomunitari.

Un colpo potente, per quanto autoinferto, alla retorica sulla “cittadinanza europea” che ancora regna ad esempio negli spot del governo Renzi.

 

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