Di seguito pubblichiamo un diario di viaggio scritto da un compagno che si è recato in terra palestinese di recente per poter comprendere meglio, da vicino, nei luoghi dell’oppressione sionista e della resistenza palestinese, la dimensione di sofferenza e di lotta che da decenni viene opposta allo Stato israeliano ed alle sue truppe di occupazione (militare e civile).
Un diario di viaggio che entra direttamente nel cuore della questione palestinese, nella materialità della vita quotidiana; che, nel ricorso alla semplice descrizione dei fatti, riesce a restituire tutta la brutalità del sistema di apartheid sionista; basta osservarlo ed affrescarlo per sentirlo in tutta la sua violenza.
La discriminazione entra fin negli interstizi più intimi della giornata di vita dell’occupato, informa le pratiche dei militari israeliani ma anche dei coloni e delle istituzioni sioniste. Più di tanti saggi, a volte lo sguardo attento dell’osservatore può restituirci l’indignazione contro l’oppressione e la dignità di chi la combatte. Le fotografie sono state scattate durante il viaggio.
Primo giorno. L’arrivo. Il primo impatto
Se non vedi lo sguardo severo di Mohamed mentre ci mostra il campo Aida… se non vedi la dolcezza che si trasforma in rabbia del dott. Nidal… non puoi capire, non puoi comprendere fino in fondo cosa vuol dire occupazione.
Il viaggio di conoscenza è cominciato con le guide Chiara e Bah che, come prima cosa, ci hanno mostrato come le colonie ed il muro stiano staccando in maniera irreversibile la zona di Betlemme da quello che è attualmente Israele. In pochi anni è stato separato ciò che era unito da millenni.
La visita al campo profughi di Aida dopo la presentazione del centro Laje da parte di Saled, che ci racconta delle difficoltà quotidiane dei 3.000 rifugiati nel campo da oltre 60 anni, aggravate dalle incursioni quasi giornaliere dell’esercito israeliano, è proseguito con un giro per il campo con Mohamed.
L’allegria dei bimbi inconsciamente spensierati contrastava con l’odore acre dei lacrimogeni del giorno prima, che ancora facevano lacrimare gli occhi.
Mohamed timidamente ci ha raccontato che il suo sguardo è triste, contrariamente al suo animo di resistente, solo perché poco meno di un anno fa, mentre riprendeva l’ennesima aggressione, un militare lo mirava con un colpo che, solo grazie alla telecamera, gli sfondava lo zigomo e non il cervello.
La visita a Betlemme è proseguita con la consegna dei medicinali raccolti e dei soldi consegnatici al centro medico del Dott. Abed, centro che dispensa visite, esami e medicinali a quella parte di popolazione che altrimenti non avrebbe accesso alle cure sanitarie.
Quello che colpisce del Dott. Abed è la sua dolcezza e il suo modo pacato di ringraziarti mille volte per quel nulla che facciamo, facendoti sentire importante. Dolcezza che si trasforma in energia coinvolgente quando ti racconta della causa palestinese e delle sue esperienze: un anno di prigione e di torture per aver partecipato a conferenze in Italia quando era studente.
Torniamo alla guest house sicuramente stanchi e tristi per ciò che abbiamo visto, ma motivati più che mai a continuare questo nostro viaggio di conoscenza e di sostegno alla resistenza palestinese.
Secondo giorno. I controlli asfissianti ai checkpoint
Il secondo giorno è iniziato con la scoperta del checkpoint 300, un lungo e stretto passaggio composto da diversi tornelli e metal detector, una vera e propria gabbia di ferro che i lavoratori palestinesi devono percorrere ogni mattina per potersi recare a lavorare in Israele.
Il checkpoint è totalmente sotto il controllo israeliano ed è l’unico passaggio che consente di entrare a Gerusalemme. Per tale ragione i lavoratori palestinesi sono costretti a subire un vero e proprio calvario fatto di estenuanti attese e di rigidi e umilianti controlli da parte dei militari israeliani.
Il checkpoint apre alle sei del mattino, ma i numerosi lavoratori palestinesi per riuscire a prendere posto sono costretti ad alzarsi alle tre. Ogni giorno la traversata può estendersi anche oltre le sei ore, ma i palestinesi non hanno possibilità di scelta e sono consapevoli che i controlli a cui saranno sottoposti, forse, non saranno nulla rispetto al duro lavoro che li attende una volta giunti a destinazione.
Lavoro che non solo non prevede alcun tipo di diritto e tutela ma che il più delle volte si macchia di sfruttamento e di vessazioni fisiche e psicologiche che rappresentano solo una delle tante strategie sottese al processo di disumanizzazione portato avanti da Israele.
In silenzio attraversiamo anche noi il checkpoint. È un silenzio che fa rumore il nostro, un silenzio carico di emozioni contrastanti, di tensione e disappunto, ma anche di rispetto e condivisione empatica di un’esperienza che, tuttavia, non potremo mai comprendere fino in fondo.
Una volta superato il checkpoint raggiungiamo la città di Gerusalemme dove ad attenderci c’è la nostra guida Daoud, il quale, prima di oltrepassare la porta di Damasco, ci spiega che la città vecchia è stata occupata dallo stato di Israele a spese della nazione palestinese nel 1967 e che nel 1980 il parlamento israeliano ha approvato la cosiddetta “legge fondamentale”, che ha proclamato unilateralmente Gerusalemme unita e indivisa capitale di Israele. Il consiglio di sicurezza dell’ONU ha definito tale legge nulla e priva di validità e attualmente le maggiori autorità giuridiche e diplomatiche internazionali considerano Gerusalemme Est un territorio occupato.
Una volta oltrepassata la porta, ci addentriamo nella città vecchia notando sin da subito il contrasto fra i vecchi edifici occupati e i nuovi edifici israeliani caratterizzati da un’architettura sterile ed anonima che lascia trasparire la mancanza di quel radicamento nel territorio e di quell’appartenenza che il popolo israeliano continua, invece, a rivendicare. Molti edifici palestinesi sono, invece, vecchi e fatiscenti poiché Israele non concede i permessi per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione.
Daoud ci spiega che il principale elemento che consente di distinguere gli edifici palestinesi è la presenza di cisterne d’acqua che sono destinate alla raccolta dell’acqua piovana dal momento che Israele priva i palestinesi anche di questo bene fondamentale. Nelle cisterne si può notare la presenza di fori di proiettili sparati dagli israeliani con l’intento sadico di privare i palestinesi anche di quel po’ di acqua che sono riusciti a procurarsi autonomamente. Molti edifici sono a rischio di crollo per via degli scavi che gli israeliani effettuano per costruire tunnel nell’intento di rinvenire reperti storici che attestino che quella è la loro terra.
Rientriamo alla guest house e dopo cena ci attende un incontro all’associazione A.I.C. (Alternative Information Center) con una ragazza palestinese che ci illustra come lo stato israeliano usi il Pinkwashing, ovvero la strategia israeliana di occultamento della violazione dei diritti umani dei palestinesi con una massiccia propaganda di una immagine democratica e modera dello stato di Israele esemplarizzata dalla vita dei suoi cittadini gay. Di contro, i cittadini palestinesi gay che si impegnano attivamente contro le politiche sioniste vengono ricattatati di continuo dalle autorità israeliane, minacciati di rendere pubblica la loro omosessualità.
Ritorniamo alla guest house scioccati e sconcertati, ma sempre più carichi nel proseguire questo nostro viaggio.
Terzo giorno. Hebron
Ieri abbiamo visto il cuore della Palestina spaccato in due: H1 e H2, le due parti in cui è divisa Hebron secondo il protocollo del 1997. H2 rientra nella zona C, si trova sotto il controllo amministrativo e militare di Israele.
Un checkpoint, con le solite facce di ragazzini mezzi inferociti e mezzi spauriti, sbarra il passo alla moschea dei Profeti, inaccessibile ai suoi fedeli per motivi di sicurezza. Dentro ci sono morti circa 40 palestinesi: stavano pregando quando un colono entrò e li prese alle spalle, assassinandoli. Da allora la moschea è spaccata in due – MM1 e MM2 –, ma è accessibile solo agli israeliani perché i profeti ebraici valgono più di quelli mussulmani.
Per le strade il deserto di una città fantasma: pattuglie di soldati israeliani equipaggiati di tutto punto sbarrano la strada agli abitanti palestinesi nei punti strategici della nuova città che hanno in mente (una città sotto il totale controllo del governo israeliano). Un negoziante senza clienti ci racconta la resistenza della sua famiglia, che ha difeso la propria casa ed il proprio lavoro dai dollari dei coloni pronti a comprare la storia del popolo palestinese.
Anche il suk è deserto: si contano più saracinesche chiuse che aperte. Una rete sulla testa protegge i negozianti dalla immondizia che i coloni dall’alto dei loro appartamenti riversano verso il basso, ma il marcio delle uova passa e anche l’urina. Una bambina ci prende per mano per portarci in cima alla sua casa mezza devastata dalle razzie dei soldati di Sion. Da lassù, bianche squadrate, quasi si toccano le case dei coloni che disegnano nell’aria una geometria segreta e spietata che passa proprio dalla casa della bimba, ma lei, testarda come il suo popolo, ci offre un cd-rom con un documentario che spiega questa dannata storia e, reggendo il cartello “Free Palestine”, ci regala la nostra foto di gruppo più bella.
E poi c’è H1 che, sebbene ferita, è ancora viva. Passando dalle sue strade affollate di gente, macchine e bancarelle pensiamo che è quello che H2 era un tempo e quello che dovrebbe tornare a essere. Perché il cuore da queste parti è coraggio e dignità e non vuole il nostro pietismo ma il nostro senso di giustizia.
Quarto giorno. La vita nei villaggi
La giornata inizia dopo la notte trascorsa per alcuni di noi sotto le stelle di Hebron, sul tetto di una casa di una famiglia che vive circondata dai coloni sionisti che si sono impossessati con la forza di alcuni edifici nella zona del mercato del centro della città.
Ci siamo diretti sulle colline a sud di Hebron nei territori che si trovano nella zona C, nel villaggio di Susya dove vivono famiglie di pastori palestinesi che, costretti a vivere in tende, subiscono quotidianamente il contatto e spesso anche la violenza dei coloni e dell’esercito che occupa un’area di addestramento; ciò in aggiunta alla quotidiana difficoltà del vivere senza luce e senza acqua. Nel passato di queste famiglie ci sono quattro spostamenti dal loro paese originario, distrutto, e ancora oggi su di loro vengono esercitate continue pressioni finalizzate alla espulsione.
Nel pomeriggio siamo stati nel villaggio di At-Tuwani dove abbiamo trovato dei ragazzi italiani, come noi, che partecipano al progetto “Operazione colomba”, un progetto di volontari laici, non violento, attivo dal 2004 che, al fianco del locale “Comitato Popolare di Resistenza” e di altre organizzazioni pacifiste israeliane, sostengono l’azione di resistenza della comunità palestinese accompagnando i bambini a scuola o i pastori nei campi, che sono continuo bersaglio delle aggressioni dei coloni che abitano gli insediamenti israeliani vicini, alcuni dei quali considerati illegali dallo stesso stato israeliano.
Il rifiuto della violenza attuato da questa comunità, accompagnato da una rete di assistenza legale, è una strategia di resistenza che la sta ripagando, come ci raccontano i ragazzi di “Operazione colomba”.
Quinto e sesto giorno. Battir, le colonie agricole, il neocolonialismo
Gli ultimi due giorni sono dedicati alle pratiche di ampliamento delle forme di resistenza di Battir ed alla scoperta della peggiore forma di occupazione che abbiamo incontrato in questo viaggio, ovvero quella esercitata nelle colonie agricole della Valle del Giordano.
Battir è un bellissimo paese adiacente a Betlemme, dove si trovava – fino al 1967 – la stazione ferroviaria della linea che collegava Damasco all’Iraq. Dal 1967, infatti, la Cisgiordania non è servita più da alcuna ferrovia. La linea ferroviaria ora delinea il tratto su cui Israele vuole costruire il muro: qualora venisse innalzato, il paese morirebbe, in quanto le terre coltivate, di proprietà palestinese, si trovano dall’altra parte della ferrovia. Un accordo tra gli occupati e i sionisti consente ai palestinesi di attraversare quotidianamente la linea verde per coltivare, in cambio della sicurezza della ferrovia. Ora, contrariamente agli accordi presi, Israele vuole costruire il muro. La comunità, consapevole che l’unica forma di lotta che le permettesse di rimanere era quella pacifica, ha intrapreso la strada legale.
Poco tempo fa Battir, con l’aiuto di due italiani esperti in beni culturali, ha presentato domanda per la qualificazione della zona che attornia la ferrovia quale patrimonio dell’Unesco. La presenza di un meraviglioso terrazzamento dell’epoca romana, di un sistema di irrigazione e di un bagno scavato nella roccia dello stesso periodo, hanno fatto sì che la domanda fosse accolta, creando enorme difficoltà alle autorità occupanti per la costruzione del muro della vergogna in quella comunità.
Nella Valle del Giordano la situazione è drammatica. L’incontro al centro di documentazione del “Jordan Valley Solidarity” ci ha consentito di comprendere meglio il contesto. Le immagini prima del 1967 dimostrano come quella zona fosse utilizzata dai suoi abitanti originari e come fosse verde al pari di quella giordana, che sembra di toccare per quanto è vicina. Da dove ci troviamo noi, solo quello che resta del Giordano – ridotto ad un fosso dallo sfruttamento irriguardoso delle sue acque da parte israeliana – separa i due stati. Dal 1967 è iniziata la costruzione delle colonie agricole e abitative, ma mentre a quelle abitative ci eravamo ormai già un po’ “abituati”, quelle agricole hanno mostrato tutta la loro brutalità. Di fatti, dopo la guerra le aziende originarie sono state chiuse o sequestrate e sostituite da quelle israeliane che, con lo sfruttamento esasperato delle risorse naturali di territori non loro, hanno creato uno dei centri agricoli tra i più importanti, se non il più importante del Medio Oriente.
La manodopera è per di più di matrice palestinese, lavora a giornata con sottosalario (2 euro ad ora!!!), senza alcun diritto, sulla terra rubatale. L’approvvigionamento all’acqua per uso domestico nei villaggi vessati da leggi che impediscono la costruzione di case scuole o ambulatori, oramai è sotto controllo totale di Israele che, impossessatosi delle terre e delle loro fonti, rivende ai palestinesi l’acqua a prezzi enormemente più alti che alle colonie abitative o agricole israeliane.
L’azienda israeliana che gestisce questo scempio è la Makrot, la stessa azienda con la quale il comune di Roma ha fatto accordi per la gestione del proprio acquedotto.
Il discorso di Rashid, rappresentante del “Jordan Valley Solidarity” che ci ha ospitati a mangiare e dormire nel panorama mozzafiato della valle, contiene parole come speranza giustizia e resistenza, praticata con il rifiuto di abbandonare quelle terre, che dovranno tornare a loro.
Un fascino incredibile, infine, ha avuto la camminata nel deserto alle spalle di Gerico che al tramonto ci ha condotti al monastero di S. Saba, unico nella sua architettura a picco sulla roccia.
Concludendo questi report sul cammino di conoscenza 2014, è indispensabile una nota sulle donne palestinesi diventate, a causa delle difficoltà create dall’occupazione, della disoccupazione e della mancanza di opportunità per i loro uomini, oltre che capaci attiviste politiche, anche fondamentali imprenditrici che, con la creazione di numerose cooperative di artigianato tradizionale, contribuiscono in modo determinante al sostentamento della comunità.
Doveroso, infine, un ringraziamento all’“Associazione di Amicizia Italo-Palestinese” di Firenze.
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