Cariche proditorie ai danni di passanti, manifestanti inermi e giornalisti; arresti arbitrari e reclusioni in carceri di massima sicurezza; revolverate contro gli studenti e irruzioni di celerini e soldati all’università, nonché tentativi di sparizione forzata malriusciti o sventati grazie all’indignazione popolare.
È la strategia del terrore che da qualche settimana governo e forze di polizia stanno portando avanti per fermare la crescita del movimento nato a partire dall’indignazione suscitata dalla strage di Iguala. Una strategia non nuova, già applicata con successo contro le proteste scatenate dalle riforme ultraliberiste dell’autunno 2013, ma che in quest’occasione sembra non funzionare, come sembrano dimostrare la vitalità della protesta a oltre due mesi dalla sparizione forzata dei 43 normalisti di Ayotzinapa e la liberazione degli 11 detenuti dopo la dura repressione del 20 novembre a Città del Messico, senz’altro una vittoria da parte del movimento.
Parallelamente alla campagna mediatica e diplomatica tendenti a dare per chiuso il caso Iguala e a circoscrivere le responsabilità politiche a livello locale applicando all’amministrazione comunale e alla polizia municipale di Iguala e Cocula il classico discorso delle mele marce, è ormai evidente l’esistenza di una strategia repressiva che mira a inibire la partecipazione studentesca e popolare alle proteste. Iniziata immediatamente dopo il grido di dolore del Consejo Coordinador Empresarial, l’organizzazione nazionale degli imprenditori, rispetto alle proteste che assumono spesso e volentieri forme radicali “mettendo a rischio i margini di profitto”, la campagna mira da un lato a dividere il movimento in buoni e cattivi e, dall’altro, ad infondere nella popolazione l’idea che partecipare alle mobilitazioni può essere pericoloso: non solo perché chi vi partecipa può finire in galera o all’ospedale o peggio, ma anche perché coloro che si espongono possono essere vittime di aggressioni e sequestri.
Come sostiene Omar, portavoce dei normalisti di Ayotzinapa, il governo, non potendo reprimere direttamente le mobilitazioni che docenti e studenti stanno portando avanti nello stato del Guerrero, cuore pulsante e motore della protesta nazionale, colpisce prima di tutto i solidali che si mobilitano nel resto del paese. A cominciare dalla capitale federale, dove si sono tenute le manifestazioni più numerose, e dal mondo giovanile e studentesco, decisamente in prima linea nella lotta che sta coagulando intorno a sé lo scontento che serpeggia nel paese e che, oltre a esigere la riapparizione in vita dei 43 desaparecidos, chiede la testa di Peña Nieto, considerato responsabile della situazione drammatica che si vive in buona parte del territorio e non in grado di gestire la crisi attuale.
L’applicazione della strategia del terrore è iniziata più o meno l’8 novembre, data delle prime dure cariche contro il movimento nella capitale dopo diverse mobilitazioni in cui le forze dell’ordine non si erano nemmeno fatte vedere. Fatti più gravi avvengono una settimana dopo all’Universidad Nacional Autonoma de México (UNAM) quando, con il pretesto di indagare su un cellulare rubato, 4 agenti della polizia giudiziaria violano l’autonomia universitaria ed uno di loro, sostenendo di essersi sentito minacciato dai giovani, fa fuoco su due studenti che vengono feriti per fortuna in modo lieve. In serata, un gruppo di 500 agenti antisommossa della polizia locale cerca – senza riuscirci a causa della resistenza opposta dagli occupanti – di sgomberare l’auditorium Che Guevara, spazio occupato da ben 15 anni all’interno del campus universitario.
Il giorno dopo, la Secretería de Seguridad Publica della capitale chiederà scusa agli studenti, denunciando l’operazione poliziesca come il prodotto della decisione di un funzionario locale, il quale, dicono, riceverà le sanzioni del caso. Tuttavia, considerando il numero di celerini posti in operazione ed il tam-tam mediatico sollevato immediatamente dagli eventi, è quantomeno lecito dubitare che ai posti di comando fossero davvero all’oscuro di quanto stava succendendo.
Attorno alle 13, nella stessa giornata, Jacqueline Santana e Bryan Reyes, entrambi musicisti, unversitari e attivisti conosciuti in ambito studentesco,vengono arrestati appena fuori dalla casa del secondo ed accusati di aver assalito un poliziotto con coltelli da cucina e di averlo poi derubato. Come per il pretesto delle indagini sul furto di un cellulare per l’irruzione all’UNAM, l’intervento poliziesco pare alquanto bizzarro. Da una parte per l’accusa, che rasenta il ridicolo, dall’altra per il modo in cui viene portato avanti. Come denuncia Mary Carmen Rodriguez, madre di Bryan, sono anche in questo caso agenti in borghese ad agire ed il modus operandi più che un arresto ricorda un sequestro o una sparizione forzata. I poliziotti si dichiarano tali, infatti, solo dopo il casuale intervento della polizia di Città del Messico, la quale sventa il sequestro dopo aver ascoltato le grida dei giovani e quelle di diversi passanti che cercano di impedire agli uomini di portarsi via i ragazzi. Dopo essersi identificati con i colleghi, gli agenti federali accompagnano i giovani nell’ufficio del pubblico ministero della Delegazione Venustiano Carranza dove vengono ufficialmente accusati di furto aggravato.
Nonostante diversi video dimostrino l’illegalità degli arresti, il giudice li convalida facendo rinchiudere Bryan e Jaqueline, rispettivamente, nel Reclusorio Norte e nel carcere femminile di Santa Martha, a sud della città. In coincidenza con la giornata globale per Ayotzinapa del 20 novembre, i giovani attivisti, che hanno denunciato di essere stati vittime di tortura sia durante il fermo che una volta giunti in carcere, iniziano uno sciopero della fame e dichiarano di portarlo avanti in solidarietà con i familiari e i compagni dei 43 normalisti desaparecidos e per chiedere la liberazione degli oltre 700 detenuti politici che popolano le prigioni del paese.
Una situazione simile viene vissuta anche da Sandino Bucio, studente della facoltà di filosofia dell’UNAM, artista e membro come Jaqueline e Bryan del collettivo Acampada Revolución, uno dei più attivi durante le mobilitazioni del movimento #YoSoy132. Venerdì 28 novembre, Sandino, appena uscito da una riunione dell’Assemblea di Filosofia e diretto verso un reading di poesia viene fermato da tre uomini armati che lo obbligano ad entrate in un veicolo. Lo studente grida che lo stanno sequestrando e cerca di opporre resistenza. Molti dei presenti, alcuni dei quali tentano di intervenire e vengono minacciati dagli agenti in borghese, iniziano a registrare quello che sembra un classico levantón, come vengono comunemente chiamati sequestri e sparizioni forzate, e che avviene attorno alle 17.30, nei pressi della stazione della metro di Copilco, appena fuori dall’università in una zona molto trafficata.
Quasi immediatamente il video viene condiviso da migliaia di persone sui social network e diventa uno dei più visti della rete. Studenti e studentesse dell’Assemblea di filosofia occupano la facoltà e bloccano la Avenida Insurgentes chiedendo l’immediata liberazione di Sandino e denunciano la probabile responsabilità della polizia. L’indignazione aumenta di minuto in minuto e, dopo un paio d’ore, le autorità comunicano che lo studente si trova alla SEIDO (Subprocuraduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada) perché accusato di aver aggredito la polizia durante il corteo del #20NovMx. Nel frattempo, decine di persone raggiungono la subprocura e la pressione sociale dovuta all’impatto prodotto dalle drammatiche immagini di Sandino caricato a forza su un Chevy continua a crescere. Con il passare del tempo, le notizie che trapelano escludono che il giovane sia in stato di arresto, sostenendo che sia semplicemente stato chiamato a dichiarare rispetto all’accusa di portare dell’esplosivo nello zaino, accusa che alla fine le autorità non riescono a sostenere.
Verso le 2.30 di notte, visibilmente stanco e segnato dalle botte, Sandino esce dalle stanze della procura e dichiara di essere stato picchiato dagli agenti che per un paio d’ore lo hanno portato in giro per la città minacciando di violentarlo, ucciderlo e farlo sparire come successo ai 43 normalisti. Durante il loro viaggio gli agenti cambiano macchina e al gruppo si aggiunge un quarto elemento che continua a colpire il giovane, al quale viene perfino distrutta la camicia. In questo frangente Sandino viene obbligato a dare le sue password ai poliziotti i quali osservano diversi profili di studenti e studentesse attivi nel movimento e dichiarano che andranno a prenderli nei giorni successivi.
Anche in questo caso siamo di fronte all’azione di agenti in borghese che portano avanti un fermo di polizia molto simile ad un sequestro, violano i principali diritti umani della persona fermata e non formalizzano l’accusa, tanto che alla fine la posizione di Sandino passa da accusato a denunciante delle torture subite. Anche qui, insomma, è forte in molti il sospetto che si tratti di una tentativo di desaparición fallita. Cosa sarebbe successo a Sandino se il video non avesse fatto scoppiare l’indignazione? E a Bryan e Jaqueline, se una pattuglia non fosse per caso capitata sul posto? Sono domande inquietanti in un paese in ebollizione a causa di una sparizione forzata di massa e che gettano pesanti ombre sulle forze dell’ordine messicane.
Alcune parole vanno spese, inoltre, per la caccia al manifestante portata avanti dalla polizia di Peña Nieto e di Mancera, il sindaco di centrosinistra della capitale, a conclusione della manifestazione del #20NovMx, durante la quale perfino anziani, bambini e turisti sono stati presi di mira dai granaderos, ai quali arriveranno in seguito i complimenti del presidente e del sindaco, in più occasioni uniti nel coordinare la repressione delle manifestazioni a partire dal primo dicembre 2012, giorno della cerimonia di inizio del mandato dell’attuale amministrazione. Alla mano dura mostrata in piazza è seguito il tentativo di criminalizzare i detenuti accusandoli sommossa, tentato omicidio e associazione a delinquere, rispettivamente, per l’assalto al Palacio nacional, l’aggressione alla polizia e il fatto che gli imputati tra di loro si chiamavano compagni (sic).
Dopo gli interrogatori alla SEIDO gli arresti vengono confermati e 8 uomini e 3 donne vengono imprigionati nelle carceri di massima sicurezza di Nayarit e Veracruz che si trovano a svariate ore di distanza da Città del Messico e nei quali vengono rinchiusi i più pericolosi criminali. Paradossalmente nel primo si trova proprio Luis Abarca, sindaco di Iguala e mandante della strage del 26 settembre.
La gravità delle accuse e del trattamento stridono con il profilo dei detenuti. La presenza tra gli arrestati di un accademico cileno crea frizioni diplomatiche. E per quanto il procuratore Murillo Karam si dica certo di aver arrestato i violenti, il tentativo di dare in pasto all’opinione pubblica i cattivi di turno fallisce e dopo una decina di giorni di mobilitazione e di pressione sui giudici, questi ultimi decidono di liberare undici dei quindici detenuti per mancanza di prove, mentre i quattro restanti escono su cauzione e contiueranno il processo fuori dal carcere. Anche in questo caso gli imputati, alcuni dei quali portano ancora i segni delle violenze subite, hanno denunciato torture fisiche e psicologiche da parte degli agenti.
Da segnalare infine, da un lato, l’irruzione di un gruppo di militari all’interno della facoltà di Scienze Politiche dell’università Autonoma di Coahuila avvenuta giovedì scorso, e durante la quale, cinque soldati con una lista di nomi in mano e armati di tutto punto hanno cercato di identificare e fotografare gli studenti che promuovono le azioni in solidarietà con Ayotzinapa. Dall’altro l’arrivo all’aeroporto di Chilpancingo di qualche centinaio di celerini della polizia federale.
Insomma, sono numerosi gli elementi che fanno pensare che di fronte ai risultati nulli ottenuti riguardo al ritrovamento dei 43 normalisti e all’effervescenza del movimento, il governo voglia spegnere la protesta. E’ questo il contesto che precede l’ennesima giornata di lotta che si terrà oggi in moltissime città in Messico e nel mondo in coincidenza con la cerimonia del secondo Informe Presidencial, durante la quale, mentre il presidente Peña Nieto presenterà al congresso un decalogo di iniziative “per ristabilire la sicurezza” e “ripristinare lo stato di diritto” già lanciato in un videomessaggio alla nazione proprio a due mesi di distanza dalla strage di Iguala,nelle piazze riecheggiaranno nuovamente l’esigenza di giustizia per Ayotzinapa ed il grido “Fuera Peña” che ha caratterizzato le ultime mobilitazioni.
* da Città del Messico
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa