E’ una vittoria perché tornano a scuola, contro chi vuole calpestare questo strumento di crescita e trasformarlo in luogo di paura. La divisa verde che li contraddistingue fa più college British che caserma sebbene il luogo, dopo l’attentato della follìa, costato la vita a centoquarantanove fra bambini scolari e giovani studenti, sia controllatissimo e cinto di filo spinato. Un secondo muro ora si frappone fra il perimetro fortificato e gli edifici dove sorgono le aule. Accade a Peshawar, provincia Khyber Pakhtunkhwa, un’area travagliata come e più di altre del Pakistan. Lì la mattina del 16 dicembre è diventata un incubo per centinaia di figli di militari che frequentano quell’istituto privato dove un manipolo di guerriglieri Tehreek ha fatto provare a degli innocenti quel terrore vissuto dai bambini del Waziristan sotto le granate delle forze armate di Stato. Una tesi aberrante, ma sostenuta dalle aberranti azioni repressive condotte dall’esercito pakistano in quelle zone.
Ovunque la guerra si dipana cerca giustificazioni di comodo per coprire i propri crimini e usarli a sua misura. La nemesi secondo la quale i figli dei militari devono pagare per le stragi compiute dai padri, non ha niente a che vedere con le leggi del destino, come nulla di epico c’è in certe operazioni di polizia militare che diventano pulizia etnica, razzista o politica. “Rientrare a scuola è come sfidare i terroristi” rivela Hasan, dieci anni, all’emittente Al Jazeera che filmava la riapertura, orgoglioso di essere lì e ricordare il cugino Asad assassinato nel raid. I terribili flash che i superstiti rivivono sono studiati da medici e psicologi che i coetanei vittime sull’altro fronte non incontreranno mai. L’etnìa e la ragion di stato li rendono poveri e marginali, impossibilitati a quello che siamo abituati a definire normalità. La normalità di simili luoghi sono incertezza e paura. Chi le istilla, chi le conserva, non è una parte sola.
Quel mattino qualche studente, sentendo i colpi di lontano credeva si trattasse d’una finzione o d’un gioco. Poi vedendo cadere i compagni che si davano alla fuga ha compreso la tragedia. Bravi, freddi e determinati sono stati alcuni maestri pronti a cospargere del sangue versato i corpi dei bimbi rimasti illesi. Finché il pericolo delle armi correva da un’aula all’altra, loro dopo l’aspersione intimavano ai piccoli di chiudere gli occhi e fingere d’esser morti. La disperazione, talvolta, può abbracciare il cinismo e salvare la vita. Oggi c’è chi riassume i nomi dei compagni di classe uccisi pronunciandone una decina, ma giurando che ne conosceva molti di più. Zahid, che ha perso un cugino nell’attacco, pensa a un futuro da soldato seppure fino a un mese fa sognava di diventare un artista. Ogni suo attuale pensiero è rivolto alla vendetta.
Accanto alla vendetta c’è il martirio. I più grandicelli, specie se maschi, ricorrono a tale concetto per sentirsi più forti. Forse sotto l’influsso dei familiari, forse nell’elaborazione di cultura e religione. Il senso della vita è ben vivo a quell’età; si parla di presente, un po’ meno di futuro o comunque di domani con incertezza pur se si hanno meno di dieci anni, un’età nella quale gli occhi dovrebbero solo brillare. Ayub, figlio di militare che di anni ne ha quindici, dice senza remore che dovendo morire la cosa migliore è farlo da martiri. E martiri i taliban Tehreek ritengono i propri guerriglieri stesi dalle pallottole del Isi e le genti delle aree tribali che essi difendono. Martiri sono i bambini delle etnìe Darwesh Khel, Dawar, Mehsod che soccombono ai bombardamenti pakistani. Ciascuno ha i suoi martiri e ne incentiva di nuovi. Forse le oltre duemila scuole private della città (poi ci sono quelle pubbliche) possono introdurre un diverso sguardo sul futuro. Ma per ora 1.380 sono rimaste chiuse. Per ragioni di sicurezza.
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