Come scrivevamo ieri, la strage di Suruc che lunedì ha ucciso 32 giovani attivisti e attiviste – per la maggior parte turchi di origine alevita – arrivati al confine con la Siria per partecipare a una missione di ricostruzione di Kobane potrebbe rappresentare uno spartiacque, un elemento di accelerazione della crisi del regime turco.
Il movimento di contestazione a Erdogan, al suo partito islamista, al suo blocco di potere affaristico e clientelare, ai suoi legami con il fondamentalismo religioso strumentalizzato per colpire il governo siriano e il movimento curdo sembra trarre nuova linfa dalla rabbia, dall’indignazione generata da un attacco che ha colpito giovani di sinistra animati da un moto di solidarietà.
Che le autorità turche, improvvisamente sollecite dopo anni di negligenze, tolleranze e sostegno attivo nei confronti dei jihadisti dello Stato Islamico, abbiano già diffuso il nome dell’attentatore – Seyh Abdurrahman Alagoz, ventenne turco che si era unito al Califfato e sarebbe rientrato in patria poche settimane fa attraversando il controllatissimo confine con la Siria – non fa che aumentare i sospetti e le accuse da parte di vasti settori della società curda e di quella turca.
Nel tentativo di bloccare la diffusione delle notizie sull’attentato ieri un tribunale turco – ma tutti sanno quanto la magistratura sia diventata un docile strumento nelle mani del potere politico – ha imposto per la terza volta in pochi mesi la chiusura di Twitter, obbligando la direzione del social network a rimuovere da migliaia di profili le foto e i video della strage prima di autorizzarne lo sblocco. Molti anche i siti internet chiusi d’autorità perché avevano pubblicato immagini o articoli non corrispondenti ai diktat del governo.
Un ennesimo atto di censura – accompagnato dalle consuete minacce a giornali e tv e dal divieto di mostrare foto e video sulle conseguenze dell’attentato o anche solo riguardanti le vittime – che però non ha impedito che le immagini dei ragazzi e delle ragazze straziati dalle schegge della bomba piazzata presumibilmente da un attentatore suicida travestito da donna facessero il giro del mondo e rimbalzassero su milioni di profili. Le immagini strazianti dei primi funerali delle vittime hanno ulteriormente commosso e mobilitato la parte più cosciente e attiva dell’opinione pubblica progressista.
Nel paese le mobilitazioni non si fermano e in alcune di esse il ruolo dei miliziani armati delle organizzazioni combattenti curde e dell’estrema sinistra turca diventa più esplicito che in passato. Come durante i funerali di due delle vittime – Ismet Seker e Cemil Yildiz – nel popolare e ribelle quartiere di Gazi, a Istanbul, dove decine di miliziani con il volto coperto hanno sfilato armati e alcuni dei quali hanno sparato in aria colpi di kalashnikov per salutare i due compagni caduti. Martedì mattina alcuni militanti armati avevano invece attaccato una locale stazione di polizia nella stessa zona.
D’altronde le forze di sicurezza rispondono alle mobilitazioni con una rinnovata brutalità, e solo a Istanbul ieri sono stati una cinquantina i manifestanti arrestati tra la zona di Taksim, il quartiere di Kadikoy – dove la polizia ha disperso le proteste con lacrimogeni e cannoni ad acqua – sulla sponda asiatica della metropoli e a Besiktas. Manifestazioni popolari represse anche nelle regioni di confine tra Turchia e Siria, sia in quelle a maggioranza curda sia in quelle costiere dove vivono popolazioni di origine siriana.
Ma è sul possibile ritorno alle armi della guerriglia curda che si accentrano ora le attenzioni di politici e analisti. Ieri infatti il Partito dei Lavoratori del Kurdistan si è assunto la paternità dell’omicidio di due agenti di polizia – uno dei quali impiegato nelle squadre speciali antiterrorismo – in segno di rappresaglia contro la collaborazione tra forze di sicurezza e i fondamentalisti di Daesh. Ieri mattina i corpi dei due agenti erano stati rinvenuti senza vita nella loro abitazione di Ceylanpinar, nella provincia di Urfa, la stessa di Suruc, a maggioranza curda. Nonostante i corpi presentassero entrambi ferite d’arma da fuoco alla testa in un primo tempo il governatore provinciale aveva assicurato che non si trattava di un episodio di natura politica, sostenuto anche dalle dichiarazioni di un locale deputato del Partito Democratico dei Popoli (Hdp).
Ma qualche ora dopo è giunta la rivendicazione dei due omicidi da parte delle HPG, le Forze di Difesa Popolare, il fronte armato del partito che teoricamente sta ancora intavolando delle trattative con il regime turco miranti alla smobilitazione delle milizie armate in cambio di concessioni sul fronte politico, sociale e culturale che Ankara però è restia a concedere.
Da capire ora se l’azione di Ceylanpinar rappresenta un episodio isolato oppure se dentro le forze della resistenza curda si sta facendo strada l’idea di un ritorno alle armi che però metterebbe in estrema difficoltà il fronte politico rappresentato da un neonato Hdp che per la prima volta è riuscito ad irrompere nel parlamento di Ankara non solo grazie al voto massiccio dei curdi ma anche di molti turchi di sinistra.
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