Mentre scriviamo una decina di milioni di elettori sono chiamati a rinnovare il Parlamento ellenico. Bisognerà vedere in quanti andranno alle urne, il dato dell’affluenza – la volta scorsa votò poco più del 60% degli aventi diritto in un paese in cui teoricamente partecipare alle elezioni è obbligatorio – sarà già esso stesso un indicatore importante per comprendere se e quanto il popolo di uno dei paesi più massacrati da anni di crisi e austerity riterrà l’appuntamento elettorale determinante.
Sondaggi e analisti concordano nel ritenere che ad avere la meglio sarà Syriza, il partito della sinistra nato pochi anni fa dall’evoluzione di una coalizione di gruppi socialisti, comunisti e ecologisti federatisi a partire dal 2004. Semmai a tenere l’Europa con il fiato sospeso, avvertono i media, sarà l’entità di una vittoria di Syriza che più o meno tutti danno per scontata. Se otterrà la maggioranza dei seggi da domani Atene avrà per la prima volta un governo di sinistra monocolore; se invece alla sinistra mancheranno alcuni seggi Tsipras dovrà cercare l’appoggio di altre formazioni di centrosinistra, ammesso che queste riescano a superare lo sbarramento del 3% in una competizione che di fatto è un referendum “a due” tra Syriza e Nea Dimokratia.
In entrambi i casi, per la prima volta un governo di un paese europeo sarebbe formato da un partito che esplicitamente denuncia e contrasta l’austerity. Una novità non di poco conto in un’Unione Europea dove la crisi e la sua gestione hanno sì provocato rivolgimenti politici importanti, con il sorgere di nuove formazioni – basti pensare al M5S in Italia o a Podemos in Spagna – o l’avanzare dei movimenti populisti e xenofobi, ma dove nessuna forza antiausterity ha mai ottenuto la possibilità di governare.
E’ evidente che la vittoria di Syriza rappresenterebbe un fatto positivo a prescindere da ogni altra valutazione, un fatto positivo di per sé: perché romperebbe l’egemonia delle forze pro-austerity e perché orienterebbe a sinistra una protesta e un malcontento sociale che altrimenti potrebbero essere egemonizzati e strumentalizzati da forze di estrema destra.
Altra è però la valutazione da fare rispetto agli obiettivi che il gruppo dirigente di Syriza ha messo al centro della propria campagna elettorale e della propria proposta di governo. Un programma che imprime una netta moderazione rispetto ad una visione generale più radicale prevalente almeno fino alle elezioni del 2012 e che mette al centro una serie di misure sociali ed economiche miranti a cancellare alcune delle più gravi conseguenze di anni di imposizione dei diktat dell’Unione Europea, del Fondo Monetario Internazionale, dei singoli paesi “creditori” e delle grandi banche continentali.
Il “programma di Salonicco”, che tanti consensi ha conquistato durante la breve ma intensa campagna elettorale, prevede – nelle sue parti fondamentali – lo stanziamento di 4 miliardi di investimenti pubblici; il ripristino degli stipendi e delle pensioni ai livelli precedenti all’imposizione dei tagli da parte della Troika e la restituzione della tredicesima ai pensionati a basso reddito; l’aumento del salario minimo a 750 euro; un piano per creare almeno 300 mila posti di lavoro; il ripristino dei contratti collettivi di lavoro, l’attenuazione della precarietà e la cancellazione delle norme che rendono possibili i licenziamenti senza giusta causa; la messa a disposizione di 30 mila appartamenti per ridurre l’emergenza abitativa; un piano per fornire elettricità e buoni pasto gratuiti a 300 mila famiglie che vivono nell’indigenza; la concessione dell’assistenza medica e farmaceutica gratuita ai disoccupati non assicurati; l’alleggerimento delle tasse sul riscaldamento e sulla casa per i redditi più bassi; la riapertura della rete tv pubblica ERT chiusa manu militari dal governo Samaras.
Di fatto il “Programma di Salonicco” rappresenta una sorta di piano di emergenza nazionale che pur non mettendo in discussione l’architettura delle istituzioni e delle relazioni fondamentali dell’Unione Europea pretende di modificare l’applicazione interna alla Grecia di alcune misure in nome di una gestione razionale delle risorse e della necessità di non destinare al pagamento del debito tutti gli introiti dello Stato. Certamente non si tratta di un programma “rivoluzionario” perché non mette in discussione il quadro ma si limita a volerlo ri-orientare, correggere, seppur fortemente. Eppure al tempo stesso il suo valore “rivoluzionario” appare innegabile in un contesto europeo dominato dalla dittatura dell’austerity, in nome della quale i governi sottoposti all’intervento della troika vengono etero diretti attraverso l’imposizione di leader fantoccio – basti pensare all’accoppiata Monti-Letta in Italia – oppure sottoposti allo stretto controllo da parte degli emissari della Bce, del Fmi e della Commissione Europea. Una voce fuori dal coro in un quadro in cui il meccanismo di integrazione europeo, già basato sulla preminenza tedesca e sull’assoluta mancanza di istituzioni democratiche, ha introdotto negli ultimi anni, con la scusa di “governare la crisi”, meccanismi di gestione automatica dell’economia che bypassano e cancellano i livelli partecipativi e decisionali dei singoli stati (la “politica”, nel senso nobile del termine) per imporre il pareggio di bilancio, il fiscal compact ecc. Un pilota automatico che esclude a partire da un livello “costituzionale” la possibilità che delle forze politiche esterne al duopolio conservatori-socialisti possano accedere alle stanze dei bottoni con velleità di cambiamento. La stanza dei bottoni, quella vera, è ormai a Bruxelles e a Francoforte e comunque chi viola trattati, accordi, patti diventa oggetto di meccanismi punitivi e coercitivi che scattano come una ghigliottina nei confronti dei disobbedienti.
Un meccanismo micidiale che abbiamo visto all’opera proprio durante la campagna elettorale greca, con interventi continui e pesantissimi dei massimi dirigenti della Bce, della Commissione Europea, del FMI, che hanno apertamente minacciato i greci e ricordato che chiunque vinca le regole sono date e vanno rispettate. Non è mancato neanche l’intervento delle oligarchie finanziarie che hanno lanciato il loro messaggio ritirando qualche miliardo di euro dalle banche elleniche, prefigurando così a mo’ di avvertimento uno scenario che in caso di implementazione di politiche sgradite potrebbe essere replicato all’ennesima potenza.
E’ evidente che di fronte a una tale involuzione del quadro istituzionale e politico europeo il problema non è quello di mettersi a cercare il pelo nell’uovo nel programma di Syriza – proporre versioni più radicali e giocare al “più uno” è facile quanto inutile – ma porsi una domanda fondamentale. Attraverso quali passi, quali meccanismi un eventuale governo delle sinistre in Grecia, o in qualunque altro paese, intende rompere una gabbia che altrimenti non si potrà che subire, sprecando un’opportunità storica e forse irripetibile come quella di una grande affermazione elettorale? Certamente c’è in gioco il rapporto tra governo e potere, che non sono la stessa cosa. Se non punterà sul conflitto e sull’organizzazione dei settori sociali colpiti frontalmente dalla gestione autoritaria della crisi, da sviluppare in maniera contemporanea e complementare all’azione di governo, un qualsiasi esecutivo di sinistra si ritroverà senza grandi strumenti a contrastare le provocazioni continue dei mercati e delle oligarchie interne ed internazionali. Se il gioco dovesse farsi troppo duro e lo scontro uscire dai livelli consensiti all’interno dell’Ue, non è azzardato pensare che dentro Syriza i settori più moderati – che non mancano, provenienti dal Pasok o anche dal Synaspismos – comincerebbero a scalpitare e potrebbero condizionare non poco una eventuale azione di governo radicalmente riformatrice, fino ad arrivare alla rottura.
Il tradimento di fatto, nonostante la buona volontà, delle enormi aspettative che i settori più colpiti del popolo greco ripongono attualmente in Syriza potrebbe avere conseguenze tragiche.
Il fallimento di un governo dichiaratamente di sinistra in un contesto di crisi sociale ed economica grave come quello greco potrebbe costituire la base, un’occasione d’oro per l’affermazione, in reazione, delle forze più reazionarie ed estremiste che in quel paese hanno dimostrato di avere base di massa, consistenti appoggi istituzionali e metodi spregiudicati.
E’ evidente che una lettura semplicistica, da tifosi, della sfida greca non può che essere limitativa e irrealistica. Il giudizio positivo su un’eventuale vittoria di Syriza, sul suo programma di emergenza anti-austerity e sulla valenza simbolica che l’affermazione di una sinistra radicale avrebbe in tutto il continente, non deve impedirci di interrogarci sul quadro più complessivo rifuggendo da ogni concezione taumaturgica di una possibile vittoria di Syriza.
La domanda a cui dovremmo rispondere è: basterà il riformismo radicale di Tsipras a far uscire la Grecia dal tunnel senza puntare ed attrezzarsi a “rompere la gabbia” dell’architettura economica e politico dell’Unione Europea? E’ in fin dei conti pensabile che le riforme che Syriza intende attuare siano possibili e fattibili in un quadro di forte limitazione della sovranità nazionale e popolare, senza mettere in discussione e violare trattati, patti, compatibilità?
In Syriza esistono correnti e sensibilità politiche assai divergenti su molte questioni, il partito non è quel blocco monolitico che una certa versione mitologica diffusa sul fenomeno dai media soprattutto italiani lascerebbe intendere. Su questioni come l’Unione Europea, l’Euro, i trattati all’interno di Syriza ci sono giudizi spesso assai distinti.
Ma allo stato le dichiarazioni di Tsipras e dei suoi economisti chiariscono che il gruppo dirigente del partito non mira ad alcuna rottura, ad alcuna frattura rispetto all’Unione Europea e ai suoi meccanismi coercitivi – la gabbia appunto – puntando invece su una trattativa con le istituzioni economiche comunitarie e il governo tedesco. Una trattativa che dovrebbe condurre ad un allentamento dei vincoli europei permettendo così una rinegoziazione del debito, un allungamento dei tempi di pagamento, e forse addirittura la cancellazione di una parte del dovuto indebitamente conteggiata. Una soluzione che però dà per scontato che le controparti – Ue, Fmi, banche, investitori, creditori – siano disponibili a concedere qualcosa, facendo scattare così un effetto domino sugli altri paesi sottoposti alla dittatura della troika che invece a quanto pare le classi dirigenti europee considerano una iattura. Ed anche ammesso che Germania e Ue siano disponibili a concedere qualcosa – tutti sanno, in fondo, che la Grecia non potrà mai restituire un debito arrivato al 180% del Pil in un paese spremuto come un limone –non è detto che l’aggravamento della crisi sistemica e della competizione globale con altri poli imperialisti o potenze concorrenti renda applicabili cambiamenti che pure leader politici o economici soggettivamente potrebbero ritenere tollerabili.
Se la trattativa con l’establishment dovesse fallire o portare a risultati puramente simbolici, di facciata, lasciando intatte le terribili condizioni in cui il popolo greco è stato costretto a vivere in questi anni, cosa è disposta a fare Syriza? Qual è, per banalizzare, il Piano B che questa forza politica propone ai suoi militanti, alla sua base elettorale, alla società greca nel suo complesso?
E’ difficile allo stato avere al riguardo risposte univoche e certezze, occorrerà seguire con attenzione l’evoluzione del quadro greco ma soprattutto di quello continentale e mondiale, per cercare di anticipare le tendenze fuori da ogni sterile atteggiamento da tifoseria.
Certamente, non possiamo non notare alcuni fatti: dalle elezioni del 2012 Syriza ha messo mano al suo programma, al suo messaggio e alla sua identità politica imprimendo una sferzata moderata tanto più forte quanto più la prospettiva di una vittoria elettorale si faceva concreta. Tsipras e i suoi hanno fatto di tutto per rassicurare i poteri forti e l’establishment, accreditandosi insistentemente presso i mercati, gli imprenditori, i governi, la Chiesa Ortodossa e il Vaticano, come una forza responsabile e quindi da non temere al di là delle diverse valutazioni sulla questione dell’austerity. Assai esplicito un passaggio di una intervista ad Alexis Tsipras all’Huffington Post quando il leader della sinistra greca affermò che “Syriza non viene più considerata un grave pericolo, come nel 2012, bensì come uno stimolo al cambiamento”.
Ancora più espliciti alcuni passaggi di una intervista molto più recente in cui il segretario di Syriza, interrogato dal Messaggero, afferma a proposito di Matteo Renzi: “Non lo conosco personalmente ma i nostri staff hanno preso contatti e la nostra sintonia è naturale. Va cambiato verso all’Europa, perché l’austerità sta strangolando tutti”. E poi ancora: “lo conoscerò molto presto e avremo tanto di cui parlare. La pensiamo alla stessa maniera sulla necessità dello sviluppo e sull’uscita da questo rigore alla tedesca che sta danneggiando tutti i cittadini europei”. E poi: “L’atteggiamento del presidente della Bce, Mario Draghi, sugli aiuti ai Paesi europei è un segnale importante che ci fa sperare per il dopo. Perché avremo risorse per ben amministrare la Grecia“.
A parte le aperture di credito nei confronti del leader del PD italiano su cui ci sarebbe molto da dire, la versione del quantitative easing appena varata dalla Bce in realtà non aiuta la Grecia, ma depotenzia qualsiasi eventuale governo guidato da Syriza: alla Grecia infatti potrebbe essere forse concessa una parziale ristrutturazione del debito, ma i titoli di stato ellenici – a differenza di quelli degli altri paesi dell’eurozona – non verranno acquistati nell’ambito del programma lanciato dalla Banca Centrale Europea, se non in quantità minima e soltanto se l’esecutivo ellenico accetterà di proseguire sulla strada dell’austerità, per quanto magari un po’ mitigata.
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