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Yemen, strage in un campo profughi. Continua la “Tempesta decisiva” dell’asse sunnita

“Le operazioni militari nello Yemen continueranno finché i ribelli non rinunceranno al potere e non permetteranno il  re-insediamento del governo legittimo”. Per la sesta notte consecutiva i caccia sauditi e degli altri paesi della coalizione sunnita – ed anche alcune navi militari – hanno martellato le città yemenite e le postazioni delle milizie sciite che intanto continuano a combattere contro le forze filogovernative ad Aden e nei dintorni. Il numero delle vittime aumenta, anche se non sembra importare molto ai media italiani che sembrano impegnati a evitare accuratamente di parlare dell’operazione “Tempesta Decisiva” guidata dall’asse saudita-egiziano contro gli sciiti dello Yemen e in oggettivo supporto del fondamentalismo sunnita, compreso quello di Al Qaeda e dello Stato Islamico che in alcuni territori del sud del paese hanno ormai sviluppato un forte radicamento che solo i ribelli Houthi sarebbero in grado di contrastare.

Neanche la strage di ieri pomeriggio nel campo profughi di Mazraq, nel nord dello Yemen, ha smosso l’interesse dei nostri quotidiani. Decine di profughi (20 secondo alcune fonti, 45 secondo altre) sono morti sotto le bombe sganciate dai bombardieri di Riad che apparentemente miravano alle milizie sciite pronte a raggiungere gli altri Houthi impegnati nell’assedio di Aden. Nel finesettimana i media locali avevano segnalato che almeno una trentina di persone erano morte nei combattimenti tra insorti ed esponenti di alcune tribù sunnite a Nuqub, nei pressi della regione petrolifera di Usaylan.
Mentre le petromonarchie ammassano mezzi navali al largo della città scelta dal loro fantoccio Hadi come quartier generale in attesa di un possibile massiccio sbarco, il timore di Riad e soci è che la capitale dei sunniti cada nelle mani dei ribelli rendendo tutto molto più complicato. A parte i bombardamenti della ‘coalizione sunnita’, è proprio ad Aden e nei dintorni che si concentrano i combattimenti più cruenti, che finora hanno causato decine di vittime sia tra i militari sia tra i civili. Le forze sciite e i reparti dell’esercito agli ordini dell’ex presidente Saleh – non certo tenero con la minoranza del nord quando era al potere prima della sua destituzione nel 2011, ma oggi alleato degli Houthi – sono intenzionate a prendere il controllo di Aden il prima possibile, privando così il governo Hadi da loro defenestrato di una fondamentale base dalla quale contrattaccare.
In soccorso dell’iniziativa militare lanciata da Riad e dalle petromonarchie del golfo e già rinfoltita dall’entusiastica adesione dell’Egitto sono arrivati in questi giorni nuovi protagonisti. Ad esempio il regime islamista turco che si è scagliato conto il tentativo di Teheran “di egemonizzare la regione”; “non possiamo permetterlo. Tutto ciò inizia a dar fastidio a noi, all’Arabia Saudita, ai paesi del Golfo. Davvero è intollerabile” ha tuonato il presidente Erdogan. Erdogan e i suoi tentano, appare evidente, di approfittare della situazione per indebolire l’asse sciita al quale appartiene il governo siriano, che Ankara sta facendo di tutto – sostegno ai jihadisti dell’Is compreso – per togliere di mezzo. E così la Turchia ha concesso il suo appoggio politico e si è detta disponibile anche ad un sostegno logistico alle forze militari dell’Arabia Saudita e del Consiglio di Cooperazione del Golfo impegnate nell’offensiva contro gli Houthi. Una posizione che ha suscitato la dura reazione di alcune forze politiche dell’opposizione turca, secondo le quali è il protagonismo dell’Iran, che in Siria prima, poi in Iraq, con i suoi alleati sciiti, le milizie irachene e Hezbollah, e insieme alle forze curde ha fermato e fatto indietreggiare il ‘califfato’ dell’Isis, a preoccupare le potenze sunnite, accusate di avere tollerato e in alcuni casi aiutato i jihadisti in Siria. “Il fatto che gli iraniani e le milizie sciite siano le sole forze che si oppongono all’Isis con i curdi e con quel che resta dell’esercito iracheno, ha fatto brillare la stella di Teheran nella regione”, ammette su Hurriyet l’analista Murat Yetkin, secondo il quale l’offensiva contro le milizie Houthi, appoggiate da Teheran ma alleate ad altre forze ‘rivoluzionarie’ anticorruzione, “è chiaramente un riflesso sunnita per tutelare lo status quo regionale contro il protagonismo sciita, che si proietta in avanti nel caos creato dai movimenti sunniti jihadisti, come Al Qaida e Isis”. Tagliata fuori finora dalla controffensiva anti-Is in Iraq, la Turchia di Erdogan, dopo il fallimento della sua politica di appoggio ai ribelli sunniti e ai Fratelli Musulmani – Bashar al Assad è sempre al potere e i curdi siriani si sono ritagliati un territorio autonomo in coordinamento con la guerriglia curda operante in Turchia – cerca una rivincita cercando di stringere ulteriormente i legami con le altre potenze sunnite, con le quali pure è in forte competizione. Il pericolo, avverte però l’analista di Cumhuriyet Semih Idiz, è che l’alleanza fra la Turchia e “gli stati meno democratici della regione” faccia deflagrare anche lo Yemen e scatenare un conflitto regionale su vasta scala.
Ma dopo aver subito potuto contare sul sostegno anche militare di Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, Qatar, Egitto, Giordania e Marocco, l’Arabia Saudita ha incassato nei giorni scorsi anche il sostegno di diversi paesi africani. Esplicito appoggio alla guerra saudita è giunto dalla Mauritania e dal Sudan i cui legami con Riad sono sempre più stretti. Ma anche i governi del Senegal e della Guinea hanno affermato di appoggiare “gli sforzi sauditi per stabilizzare il paese dove le truppe ribelli minano la sovranità e l’ordine costituzionale dello Stato membro dell’Organizzazione per la cooperazione islamica”.
Il risultato maggiore per l’asse saudita-egiziano è arrivato indubbiamente dalla Lega Araba, che con la sola eccezione dell’Algeria nel corso del vertice di Sharm el Sheikh ha annunciato la creazione di una forza militare di intervento che potrà essere dispiegata “su richiesta di qualsiasi stato membro” di fronte a “una minaccia per la sicurezza nazionale o per combattere i gruppi terroristici”. Di fatto il pre­si­dente egi­ziano al-Sisi e il sovrano Sal­man al-Saud hanno otte­nuto una copertura politica e militare da parte di una Lega Araba che di fatto si riscopre alleanza innanzitutto di carattere sunnita prima ancora che regionale. Non deve sfuggire il fatto che nei loro interventi, i governanti dei paesi aderenti all’alleanza hanno più volte sottolineato la “minaccia posta all’identità araba” da parte di “soggetti esterni”, in esplicito riferimento ad un Iran considerato corpo estraneo persiano e sciita, con le sue propaggini in Siria, Libano, Iraq e Yemen, in un Medio Oriente che si vorrebbe esclusivamente sunnita.
Mentre l’Unione Europea per ora tace l’amministrazione statunitense ha di nuovo riconfermato il suo incondizionato sostegno alla strategia dell’asse sunnita. Una posizione controproducente per Washington, che l’ha adottata prendendo atto del fatto che ormai Riad e petromonarchie agiscono senza chiedere il permesso. Un segno della estrema confusione che regna nell’amministrazione statunitense ma anche degli assalti della destra repubblicana – che controlla il Congresso – e delle lobby filoisraeliane alla presidenza Obama, in nome del boicottaggio dei negoziati con l’Iran in corso a Losanna per il raggiungimento di un accordo internazionale sul nucleare iraniano.

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