I “professionisti” seduti nell’Eurogruppo alla fine hanno tolto dal volto la maschera sorridente dello squalo e hanno vomitato tutto il loro odio contro il rappresentante della piccola Grecia che non accetta supinamente i loro ordini. Quel “dilettante” sparato contro Yanis Varoufakis sembra quasi un lapsus dell’incoscio, visto da chi è stato pronunciato: Jeroen Dijsselbloem, giovane boero di ultradestra innalzato per motivi ignoti prima alla presidenza del consiglio del suo paese e poi alla vicepresidenza dell’Unione Europea, con delega agli affari economici.
C’è da chiedersi però di quale professione siano “professionisti” i 18 ministri delle finanze che hanno cercato, ancora una volta inutilmente, di piegare il governo greco ad accettare le “riforme strutturali” che raccomandano come una medicina salvifica e hanno però portato Atene sull’orlo della bancarotta. C’è da ricordare sempre, infatti che all’inizio della “cura” la Grecia aveva una decina o poco più di miliardi di debiti nei confronti di alcune banche private europee, soprattutto tedesche e francesi; e un debito pubblico (con i conti falsificati dal governo di destra di Karamanlis) intorno al 120% del Pil. Il “salvataggio” ha fatto levitare il conto ad oltre 200 miliardi – che ora andrebbero pagati da Atene agli Stati dell’eurozona, sostituitisi generosamente alle banche – e il debito pubblico ad oltre il 175%. Come ha opportunamente risposto lo stesso Varoufakis, le prescrizioni che l’Unione Europea e la Troika continuano a “consigliare” sono «una ricetta che ha già fallito». Se Atene le adottasse, aggravate, dopo cinque anni di salasso, cadrebbe in una «tappola di austerità»: di qui l’invito a «lasciar perdere un approccio che ha fallito», fatto di «nuovi tagli ai salari e alle pensioni».
Sul fatto che la Grecia debba “riformarsi”, abbandonando un sistema di irresponsabilità economica che ha visto protagonista assoluta una ristretta classe borghese concentrata intorno a 600 famiglie di armatori navali (esentati dal pagare le tasse con un apposito articolo della Costituzione risalente al regime dei colonnelli!), e la corruzione dilagante (il solo George Papandreou, ex leader “socialista” del Pasok ed ex premier, è presente nella “lista Falciani” con 500 milioni di euro in banche svizzere), non esistono dubbi. Neanche nel governo greco.
Ma quali “riforme”? La Troika ha un programma di classe molto chiaro: tagliare salari, pensioni e sanità, licenziare una percentuale alta di dipendenti pubblici, privatizzare il poco che ancora rimane nelle mani dello Stato, cancellare anche le ultime tutele del lavoro dipendente. Il governo Syriza invece propone ancora un programma di lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, innalzando il salario minimo da 500 a 750 euro al mese e altre misure di rilancio dell’economia su iniziativa pubblica.
Lo scontro si prolunga ormai da tre mesi e ieri tutti – compreso Mario Draghi – hanno deciso che “il tempo sta finendo”: o la Grecia si arrende o va in default, uscendo dall’euro e forse anche dall’Unione Europea. Peccato che questa soluzione significherebbe anche l’inizio dela fine per tutta la costruzione europea, perché nulla sarebbe più sentito come “irreversibile”. Quindi nessuno la vuole davvero. Dunque non resta – secondo i “professionisti” dello strangolamento – che obbligare Atene a cedere.
La riunione di ieri segna però un passaggio netto, anche nei modi e nei toni. «Semplicemente stiamo perdendo troppo tempo», «Sono un po irritato, non si può andare avanti così. Bisogna prendere delle decisioni», «Penso che tutti i miei colleghi siano molto delusi, ma non possiamo fare tutto da soli: abbiamo bisogno anche che la controparte si impegni a fondo e fornisca qualche risultato», tutto a contorno degli insulti contro il “dilettante” che insiste nel proporre una ricetta diversa. Mai nei palazzi eurpei ci si era espressi in questo modo. Sembra chiaro che più passa il tempo meno le minacce della Troika restano credibili. Dal punto di vista finanziario, dunque anche politico, la “fretta” di cui tutti fanno mostra si concentra sulle scadenze dei rimborsi che la Grecia deve al Fmi (giugno): meno di un miliardo di euro, praticamente nulla per chi li deve ricevere ma moltissimo per un paese le cui casse sono praticamente vuote.
Se non ci fosse il problema politico di “piegare” Atene, quel miliardo scomparirebbe in un attimo dalle discussioni. Basterebbe un altro governo, fatto di “professionisti” a disposizione del capitale mutinazionale, pronti a eseguire ogni macelleria sociale venga ordinata dalle “istituzioni” europee.
Forse è ora che masse di “dilettanti” si facciano avanti per rovesciare l’ordine plumbeo che regna sul Vecchio Continente.
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