E’ allarme in Macedonia. Il paese, infatti, sta vivendo dei sommovimenti che sembrano precorrere il disastro di una cosiddetta “rivoluzione colorata”, simile a quella che ha sconvolto molti paesi dell’area ex-socialista in Europa, per ultima l’Ucraina.
Tutto è cominciato fra il 9 e il 10 maggio, quando sono ricomparsi per la prima volta dal 2001, quando si sfiorò la guerra civile, dei gruppi armati nazionalisti albanesi provenienti dal vicino Kosovo e verosimilmente appoggiati dall’UCK (ovvero, il gruppo armato protagonista del distacco della regione dalla Serbia, che appoggiò anche i tentativi di destabilizzare la Macedonia nel 2001 attraverso la formazione di un gruppo armato locale). I miliziani hanno ingaggiato nella città di Kumanovo intensi scontri con la polizia macedone che hanno portato alla morte di 22 persone; a tal proposito, occorre ricordare che il 25% dei 2 milioni di abitanti del piccolo paese balcanico è rappresentato da persone di etnia albanese e che l’intento di questi gruppi armati è quello di inglobare nella “Grande Albania” le aree a maggioranza albanese, fra cui, appunto, la città di Kumanovo.
Contemporaneamente è scoppiato un grande scandalo nel paese per via della diffusione, da parte del principale esponente dell’opposizione Zoran Zaev (Partito Socialdemocratico, legato all’Internazionale Socialista), di numerose intercettazioni telefoniche aventi come protagonisti esponenti di governo che parlano tranquillamente di assassinii insabbiati, gestione corrotta di fondi pubblici ed elezioni da ‘aggiustare’.
L’opposizione filoeuropea ha chiesto le dimissioni del Governo, guidato da Nikola Gruevski (Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone, di centrodestra) e lo stesso Zaev il 18 maggio ha chiamato, ottenendo un grande riscontro, i suoi sostenitori a scendere in piazza nella capitale Skopje e a rimanervi fino a che Gruevski non avrà rinunciato.
Ovviamente, di fronte a questo richiamo, la mente di molti è subito corsa immediatamente ai fatti di piazza Maidan a Kiev nell’autunno 2014; fra questi, anche il Ministro degli Esteri della Russia Lavrov, il quale ha esplicitamente parlato di proteste manovrate dall’esterno (quindi dalla NATO, dall’Ue e dagli USA) ed ha addebitato gli eventi alla politica “non anti-russa” seguita dal Governo di Skopje, che non ha aderito alle sanzioni contro Mosca dopo il golpe in Ucraina e ha dato il proprio consenso a far passare nel proprio territorio il gasdotto Turkish Stream che Bruxelles e Washington avversano esplicitamente. Infrastruttura, quest’ultima, voluta e progettata dal colosso russo dell’energia Gazprom.
Il Governo Macedone, intanto, ha risposto chiamando in piazza anche i suoi sostenitori che hanno risposto massicciamente nei giorni scorsi con una manifestazione anche più partecipata di quella messa in campo dalle opposizioni.
La tensione resta altissima; la Macedonia ha fatto richiesta di adesione all’UE e alla NATO, ma per ora il suo ingresso in questi due organismi è congelato.
Per il momento, almeno formalmente, l’UE sta facendo pressione su tutti i partiti affinché risolvano le questioni attraverso il dialogo, mentre il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha dichiarato che sta “seguendo da vicino” tutte le vicende, il che è abbastanza inquietante visto che l’Alleanza Atlantica è un patto militare e non dovrebbe avere competenze di tipo politico.
C’è da dire che il paese è teatro di una decennale disputa sulla propria denominazione ufficiale con la vicina Grecia, la quale sostiene che i territori dell’attuale Repubblica di Macedonia insistono solo su una parte di una regione storica e geografica più ampia con lo stesso nome, compresa per la maggior parte nel territorio del paese ellenico; ragion per cui ritiene necessario che il piccolo paese balcanico non debba essere autorizzato a chiamarsi ‘Macedonia’. Inoltre, la Bulgaria considera la Macedonia come una parte della nazione bulgara e il macedone come un dialetto della propria lingua; e di conseguenza concede il proprio passaporto a tutti i macedoni che ne facciano richiesta.
Si sono citati questi due dati poiché non è difficile vedere come le potenze imperialiste potrebbero avere interesse a far esplodere una crisi ai confini della Grecia (coinvolta nella ben nota “trattativa” con la UE) e dell’Ungheria (governata da un partito di destra che non ha aderito alla crociata contro la Russia), piantando in questi due paesi una potenziale grana che potrebbe coinvolgerli, anche agitando strumentalmente i due motivi cui si è fatto cenno.
Al momento siamo nel campo delle ipotesi e non vi sono elementi sufficienti per dire che effettivamente siamo in presenza di uno scenario simile a quello ucraino. Ma le condizioni affinché la crisi possa vedere una pericolosa drammatizzazione ci sono tutte (un groviglio di tensioni etniche e dispute internazionali, presenza di gruppi armati, grossi interessi geo-politici) ed è necessario tenere d’occhio la situazione per non incorrere in errori di valutazione, come accaduto a qualche settore di movimento e della sinistra l’anno scorso con i fatti di Piazza Maidan.
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