“Dal 2007 all’interno dell’Unione Europea è in corso un vero e proprio colpo di stato”. Parola del sociologo Luciano Gallino, intervistato da Roberto Ciccarelli sull’edizione di ieri del quotidiano Il Manifesto. Un’affermazione grave, che cozza frontalmente con la rappresentazione edulcorata e manipolatoria che stampa e classe politica ci stanno offrendo del contenzioso tra istituzioni europee e governo ellenico.
Alcuni passaggi dell’intervista a Gallino sono assai interessanti, soprattutto espliciti. Ad esempio quando il sociologo per sostanziare la sua accusa cita i governi imposti all’Italia dalle istituzioni europee a partire dal 2012. Riferendosi ai governi europei ricattati dalla troika Gallino afferma:
“Anziché subire passivamente le direttive di Bruxelles, che in molti casi sono quelle di Berlino, potrebbero puntare i piedi e discutere i provvedimenti. Cosa che non è avvenuto in Italia negli ultimi quattro governi italiani che hanno accettato passivamente e pedissequamente obbedito alle terapie della Commissione Europea o della Bce. Non si è mai vista una banca centrale chiedere di rendere flessibile il mercato del lavoro. Lo fece con Trichet da governatore con la lettera del 2011. Il governo Monti messo al posto di quello Berlusconi ha immediatamente provveduto a farlo”.
Poi Gallino in un passaggio parla apertamente di un colpo di stato contro il governo ellenico che il primo ministro Alexis Tsipras avrebbe respinto. “La prima fase del colpo di stato presupponeva che le vittime protestassero un po’, per poi obbedire come nulla fosse successo. Oggi, il fatto che un paese economicamente insignificante alzi la testa e prenda a calci negli stinchi questi poteri è un fatto rilevante” afferma il sociologo, che poi – ed è questo il passaggio forse più interessante dell’intervista – interviene duramente ed inequivocabilmente sulla natura antidemocratica, autoritaria dell’Unione Europea, della sua struttura, delle sue istituzioni e dei suoi meccanismi.
“La democrazia è un fattore di disturbo per le istituzioni europee, per molti paesi a cominciare dalla stessa Germania o per il Fondo Monetario Internazionale. Tanto Lagarde, quanto Merkel, hanno detto in varie occasioni che è molto bello vivere in democrazia ma che bisogna anche rendersi conto che la democrazia si deve conformare alle esigenze del mercato. Io trovo queste dichiarazioni politiche di una gravità eccezionale perché dovrebbe essere vero invece esattamente il contrario. In Europa la democrazia viene considerata ormai un intoppo per le decisioni del mercato. Del resto nei trattati fondativi dell’Unione i riferimenti alla democrazia sono nulli. Con la Grecia hanno proprio esagerato. Se anche i primi ministri, per non parlare dei funzionari della Bce o di importanti esponenti dei socialisti hanno interferito apertamente con il governo greco, dimostrando che per loro la democrazia è una seccatura per la libera circolazione dei capitali. La socialdemocrazia è scomparsa totalmente. È ora di prendere posizione”.
Riepilogando e schematizzando, un intellettuale non certo estremista come Gallino afferma in maniera chiara e netta che:
– l’Unione Europea considera la democrazia e la partecipazione elementi di disturbo, tanto che nei documenti fondativi dell’Ue non se ne trova traccia
– a dominare la scena politica all’interno del meccanismo di integrazione europea è esclusivamente l’interesse del Capitale
– non esiste un’alternativa socialdemocratica alla destra liberista, e che quindi non si può contare sull’alternanza tra centrodestra e centrosinistra per modificare una siffatta architettura dell’Unione
Gallino non interviene sul tema della ‘riformabilità’ o meno dell’Ue (non vogliamo certo mettere in bocca al sociologo parole non sue o forzarne i ragionamenti), ed anzi ad un certo punto afferma che “è necessario ridiscutere il trattato istitutivo dell’Unione Europea, oltre che lo statuto della Bce, che non contempla la necessità della nostra epoca, cioè creare occupazione o il prestito di denaro ai governi. Una cosa inaudita per una banca centrale”. Ma poi cita ‘due problemi’ che sembrano allo stato insormontabili, e che oggettivamente presentano l’architettura autoritaria dell’integrazione europea come non modificabile:
“Ci sono due problemi collegati da affrontare. I trattati, oggi, non sono modificabili, se non all’unanimità. È il segno dell’impossibilità pratica di intervenire: come si fa a far votare 28 paesi insieme? Questo è il funzionamento di un’unione nata male, fondata sulle necessità economiche e non su quelle democratiche, dove la partecipazione non conta nulla. Poi c’è il problema della Germania, l’unico paese ad avere avuto vantaggi dall’euro in termini di export e produttività, anche se negli ultimi dieci anni in questo paese i salari sono rimasti fermi. Convincerla a diminuire l’export, è difficile se non impossibile, ma questo è uno dei problemi fondamentali e lo dicono anche gli economisti tedeschi. L’euro non funziona e non funzionerà mai”.
Leggendo queste affermazioni difficilmente il lettore potrà pensare che sia possibile, allo stato attuale, intervenire in qualche modo per migliorare una Unione nata male e dalla struttura così rigida, feroce, dittatoriale. Una sensazione confermata anche da un passaggio successivo dell’intervista:
“Non si tratta però di continuare le invettive contro la finanza, ma di mettersi a studiare cosa fare per migliorare l’euro, per affiancarlo a monete parallele o dissolverlo in maniera consensuale. Così com’è l’euro è una camicia di forza che rende la vita impossibile a tutti, tranne che alla Germania”.
E’ evidente che quanto sta accadendo sulla Grecia sta facendo chiarezza rispetto alle illusioni e alle suggestioni che da sempre animano il dibattito a sinistra rispetto alle prospettive di cambiamento dell’Unione Europea. Un dibattito spesso basato su una visione tutta ideologica – da questo punto di vista i continui richiami di una certa sinistra radicale “allo spirito di Ventotene” appaiono quanto mai fuori luogo – che fa a cazzotti con una realtà ormai sotto gli occhi di tutti. Neanche un governo intimamente europeista e riformista come quello Tsipras, che finora ha giurato di voler accettare un compromesso con le esigenze della Troika anche a costo di accettare una dose di austerity solo di poco inferiore a quella pretesa dai ‘creditori’ riesce a far valere il suo punto di vista di fronte agli eurocrati di Bruxelles e Francoforte.
Paradossalmente potrebbe essere proprio l’Unione Europea, per motivi politici e strategici – dimostrare che nessuno può mettersi di traverso, neanche parzialmente, rispetto alla strada segnata dalla governance del processo di integrazione continentale a guida franco-tedesca – ancora prima che economici, a buttare fuori dall’alleanza un paese la cui popolazione, nonostante tutto, continua a pensare che il proprio futuro debba coincidere con quello dell’Europa Unita.
La realtà conferma ogni giorno di più che di fronte all’irriformabilità dell’Unione Europea continuare a insistere, come anche la direzione di Syriza fa, sulla necessità di una democratizzazione di un’istituzione nata per servire gli interessi delle classi dominanti del continente – e di alcuni paesi rispetto ad altri – non può che rappresentare un freno alla costruzione di un’alternativa radicale e praticabile ai diktat e ai ricatti. E ai colpi di stato, per utilizzare l’efficace analisi di Gallino e di altri intellettuali.
Non esiste alternativa praticabile per i popoli del Mediterraneo al di fuori della rottura dell’infernale meccanismo dell’Unione Europea e della fuoriuscita dalla micidiale gabbia dell’Eurozona. Occorre prenderne atto e lavorare in Italia, in Spagna, in Portogallo per costruire le condizioni affinché il ‘no’ greco diventi la base di massa sul quale costruire una battaglia epocale di cambiamento che coinvolga non solo Atene ma tutti i paesi oggettivamente puniti dal processo di integrazione autoritaria portato avanti dall’Unione Europea.
Il rischio, altrimenti, è quello di svendere un patrimonio di mobilitazione e lotte in nome del “dogma della trattativa” e di provocare un’ondata di disillusione e rabbia nei confronti di un governo guidato da Syriza che consegnerebbe settori consistenti del popolo greco nelle mani dei neonazisti di Alba Dorata o di altre forze reazionarie interne al panorama politico ellenico.
Da questo punto di vista stona non poco, rispetto alla determinazione che la grande vittoria dei ‘no’ di domenica scorsa dovrebbe imprimere all’esecutivo di Atene, la dichiarazione diffusa da tutte le forze politiche elleniche presenti in parlamento al termine di una riunione, durata ben sette ore, convocata lunedì scorso dal presidente della Repubblica, l’ex ministro degli Interni di Nuova Democrazia, Prokopīs Paulopoulos, su iniziativa dello stesso Alexis Tsipras.
Una dichiarazione breve ma foriera di preoccupazioni per coloro che sostengono il governo ellenico nella misura in cui controbatte alle assurde pretese della Troika – nuovi prestiti in cambio di nuove misure di austerity – e pretende almeno un drastico abbattimento del debito. Il testo diffuso lunedì e che in qualche modo impegna anche il nuovo ministro delle finanze Tsakalotos è stato concordato dai partiti che formano la maggioranza di governo insieme con quelli dell’opposizione filo-troika – Nuova Democrazia, Pasok, To Potami (i nazisti di Alba Dorata hanno rifiutato di partecipare, così come i comunisti del Kke) rilegittimando di fatto le forze politiche collaborazioniste che qualcuno definisce efficacemente “la Troika dell’interno” – sconfitte prima nelle elezioni del 25 gennaio e poi di nuovo proprio domenica. Il breve documento recita:
“La volontà popolare, come é stata espressa dal referendum di 5 luglio 2015, non é volontà di rottura, ma volontà di continuare e rafforzare I tentativi di arrivare a un accordo socialmente giusto ed economicamente equilibrato. In questa direzione il Governo Greco assume la responsabilità del proseguimento delle trattative. Ogni leader politico dovrà dare il suo contributo, nell’ambito del suo ruolo politico e istituzionale. Obiettivo comune é la ricerca di una soluzione che possa garantire: la soddisfazione dei bisogni finanziari del Paese. Riforme credibili, col criterio di una imparziale e giusta ripartizione dei pesi economici, e della promozione di un progresso economico con le minime ripercussioni depressive. Un programma forte di sviluppo a favore del paese, contro la disoccupazione e per l’incorraggiamento delle attività aziendali. Dobbiamo assumersi l’impegno di portare avanti un serio dibattito per poter affrontare il problema del debito pubblico sostenibile. Immediata priorità é per noi il ristabilimento della fluidità del settore finanziario, in collaborazione con l’UE”.
E’ altrove – nei settori popolari schiantati dalla crisi, tra i lavoratori, nei ceti medi impoveriti, tra i giovani che resistono all’emigrazione – che il governo Syriza-Anel, se è veramente determinato a respingere i diktat delle cosiddette ‘istituzioni’, deve cercare e trovare sostegno e mobilitazione, non certo nei partiti che hanno applicato per anni e pedissequamente gli ordini di Bruxelles e Francoforte. La vittoria del ‘No’ nel referendum di domenica scorsa dimostra che ‘si può fare’. Che costerà sacrifici e sofferenze – non esiste soluzione rapida e indolore alla crisi in cui Ue e Fmi hanno precipitato il popolo greco – ma si può fare.
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