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Dopo la strage di Suruc il regime turco trema: twitter bloccato, bavaglio ai media

Erano per lo più giovani e giovanissimi gli attivisti curdi e turchi arrivati da tutto il paese nei giorni scorsi a Suruc, a pochi chilometri dalla frontiera con la Siria e dalla città martire di Kobane. Quando la bomba piazzata nel centro culturale Amara è esplosa, stavano cantando slogan di solidarietà con la lotta della resistenza curda contro i tagliagole dello Stato islamico. Di lì a poco avrebbero provato a superare il confine, dopo l’ennesimo divieto delle autorità di Ankara, per partecipare a una missione di solidarietà con l’obiettivo di partecipare alla ricostruzione di Kobane. Avevano raccolto giocattoli per allietare le sofferenze dei bambini di Kobane, volevano costruire una biblioteca e un museo dedicato all’epica lotta della città – e di tutto il Kurdistan – contro le orde jihadiste. Dei 330 ragazzi e ragazze – alcuni militanti di organizzazione della sinistra radicale curda e turca, altri semplicemente animati dalla volontà di partecipare ad un progetto solidale – che avevano aderito all’appello della Federazione delle Associazioni della Gioventù Socialista, arrivando da molte città della Turchia, 32 sono stati dilaniati dall’esplosione. Altri e altre sono in gravissime condizioni, e purtroppo il già tragico bilancio di questa assurda strage potrebbe aggravarsi. 

L’eccidio ha di nuovo scatenato la rabbia dei settori della popolazione e di quelli politici che da tempo accusano, non a torto, il regime turco di aver da sempre sostenuto o quantomeno tollerato il radicamento del jihadismo estremista in Siria per poter intervenire in un paese su cui le mire di Ankara sono esplicite. Regime che all’inizio ha provato a dare la colpa a una fantomatica sigla di ‘estrema sinistra’, ma ormai il giocattolo della propaganda erdoganiana si è rotto da tempo, e così i vari ministri hanno dovuto presto cambiare registro, accusando l’Isis, per la prima volta, di aver colpito su suolo turco. Anche la maggior parte dei media internazionali – italiani compresi – hanno dato per buona questa ricostruzione di comodo. Forse in pochi fuori dalla Turchia ricordano la strage di Reyhanlı. L’11 maggio del 2013 due autobomba esplosero nella città a pochi chilometri dal confine con la Siria, a poca distanza da Antiochia, abitata da popolazioni di origine arabo-siriana. Quel giorno 51 civili rimasero uccisi in un eccidio che il governo turco tentò in tutti i modi di attribuire al governo di Damasco per giustificare i propri piani di invasione della Siria, e in seguito alla sinistra rivoluzionaria turca, accusata di essere il braccio militare di Assad sul suolo patrio. Ma venne subito fuori un’altra versione, mentre decine di migliaia di abitanti della regione scendevano in piazza contro il governo islamista: a provocare la strage erano stati elementi di una sigla allora ancora poco nota, l’Isis, nei confronti della quale l’Akp aveva dimostrato tolleranza e supporto. Un militare che aveva diffuso documenti segreti che provavano i legami degli apparati governativi con i jihadisti e con la strage venne arrestato e processato, e molti giornalisti conobbero il volto repressivo dello stato prima ancora che, pochi mesi dopo, milioni di turchi scendessero in piazza in quello che fu conosciuto come ‘Occupy Gezi’.
La strage di lunedì a Suruc è forse ancora più grave di quella di due anni fa, anche se il bilancio di morte è minore. Perché la bomba non ha colpito nel mucchio, a caso, ma una realtà politica che lavora a superare il muro contro muro che a lungo ha caratterizzato i rapporti tra il movimento curdo di liberazione nazionale e le organizzazioni rivoluzionarie turche. Perché ha colpito a Suruc, avamposto della solidarietà con una città – Kobane – e un’entità – il Rojava – che da mesi stanno catalizzando gli sforzi per una battaglia militare contro il jihadismo sunnita ma anche quelli politici contro un regime di Ankara che neanche la sconfitta dell’Akp alle recenti elezioni politiche sembra essere riuscita a incrinare. Non a caso la bomba ha colpito giovani di sinistra all’interno di un centro culturale che da più di un anno ormai rappresenta uno snodo fondamentale delle missioni di solidarietà provenienti da tutta Europa.
Lunedì sera la rabbia, il dolore, lo sconforto hanno preso forma nei tanti cortei che hanno attraversato le vie delle città di tutto il paese, da Van a Istanbul. Slogan contro Erdogan, il suo partito, il suo blocco di potere, individuati come i protettori, i padrini, i mandanti dell’eccidio di Suruc. Che a piazzare la bomba sia stato un invasato fedele del Califfato o un agente dei servizi agli ordini del ‘Sultano’ poco importa. Non è neanche fondamentale, allo stato, comprendere se Ankara e islamisti fossero d’accordo nell’architettare la strage o se invece essa debba essere letta come un avvertimento dei jihadisti nei confronti dei loro padrini dopo un leggero alleantamente del sostegno all’Isis e l’arresto di alcune centinaia di volontari diretti in Siria.
Basta vedere il comportamento delle autorità e della polizia contro i manifestanti – per l’ennesima volta gasati, manganellati, investiti dai getti d’acqua dei Toma – per capire da che parte sta il regime turco. Mentre la polizia in assetto antisommossa attaccava le decine di migliaia di persone scese in piazza a Taksim, e i manifestanti in strada ad Ankara, a Izmir, a Diyarbakir e a Mersin, il primo ministro Davutoglu andava in ospedale a far visita ai feriti, seguito da un codazzo di telecamere.
Ma le ipocrite dichiarazioni di lutto da parte degli alti papaveri del partito islamista non possono certo fare piazza pulita di anni di collaborazionismo con le milizie che hanno seminato il terrore in Iraq e in Siria e che ora colpiscono anche in casa. Come ha fatto l’attentatore – l’ipotesi della giovane kamikaze sarebbe stata per ora scartata dagli inquirenti – ad arrivare all’interno del centro culturale Amara di Suruc imbottito di esplosivo nonostante la struttura fosse circondata dai militari e dai poliziotti turchi che avevano perquisito uno per uno tutti i partecipanti alla carovana di solidarietà con Kobane? Da dove è arrivato il ventenne turco Abdur­rah­man Ala­göz che secondo alcune fonti sarebbe l’attentatore e che si sarebbe unito all’Is due mesi fa? Perché subito dopo l’esplosione la polizia in assetto antisommossa ha impedito con la forza a centinaia di persone di aiutare i feriti, alcuni dei quali secondo fonti mediche si sarebbero potuti salvare se soccorsi per tempo? La direttrice del centro Amara, Zehra Yanar­dağ, ha denunciato: «La poli­zia è arri­vata prima delle ambu­lanze. I carri armati chiu­de­vano le strade e i poliziotti lanciavano lacri­mo­geni. Non pote­vamo respi­rare. Molti feriti sono morti là». E ancora: perché i corpi delle vittime sono stati esaminati nell’obitorio di Gaziantep e non in quello di Urfa? Perché il governo ha così tanta fretta di chiudere le indagini indicando responsabili probabilmente di comodo ed ha imposto sulla vicenda il bavaglio alla stampa con il divieto assoluto di pubblicare immagini delle conseguenze dell’attentato mentre in tutto il paese molti utenti segnalano il blocco di Twitter anche se nessuna dichiarazione in tal senso è stata realizzata dalle autorità competenti? Evidentemente il regime teme che la rabbia per quanto accaduto lunedì a Suruc possa montare, organizzarsi, trasformarsi in un’ennesima ondata di opposizione contro una situazione di complicità con il terrorismo jihadista ormai insopportabile per milioni di curdi, ma anche di turchi.

Manifestazioni popolari che si preannunciano enormi sono state già lanciate dai curdi e dalla sinistra turca per il finesettimana mentre i partiti dell’opposizione tuonano contro una intollerabile interferenza di Ankara negli affari interni della Siria, individuata come causa della strage di lunedì. Nei quartieri popolari di Istanbul lunedì e ieri di nuovo hanno fatto la loro comparsa le barricate e i miliziani incappucciati delle organizzazioni combattenti curde e turche hanno ricordato i ‘martiri di Suruc’ mitra alla mano. Di fronte a tanto sangue e in mancanza di passi concreti nella trattativa con la stato turco i comandi del Pkk stanno faticando non poco per tenere a bada le milizie della resistenza curda che assistono impotenti al massacro della propria gente dalle montagne dell’Anatolia.
I ‘repubblicani’ del Chp (nazionalisti laici di centrosinistra) ora potrebbero decidere di non formare più il previsto governo di unità nazionale insieme all’Akp (uscito vittorioso dalle elezioni ma senza la maggioranza assoluta), per timore di essere oggetto della riprovazione generale se facessero da stampella ad Erdogan proprio nel momento di maggiore debolezza del regime. «Suruc – afferma il direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar – è il frutto insanguinato della politica dell’Akp e del Mit (i servizi segreti, ndr) su Siria e Isis»

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