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Ankara bombarda e arresta. Si scrive “lotta all’Is”, si legge guerra al Pkk e a Damasco

Bombardamenti nel Nord dell’Iraq e anche sulle montagne dell’Anatolia turca, quella dove più forte è la concentrazione della popolazione curda. I caccia di Ankara compiono una missione dopo l’altra in attesa del via libera definitivo da parte degli Stati Uniti a sconfinare nel nord dell’Iraq e prendersi una fascia di varie centinaia di chilometri quadrati per istituire la cosiddetta ‘safe zone’. La zona cuscinetto dovrebbe essere lunga 90 km e profonda 50, affiancata da una “zona di non volo”, con l’obiettivo di dividere i cantoni curdi parzialmente liberati del Rojava e permettere al regime turco di deportarvi alcune centinaia di migliaia di profughi siriani. Tra i quali magari reclutare qualche migliaio di miliziani da utilizzare per occupare il territorio siriano e per scagliarli all’occorrenza contro le truppe di Damasco o le Unità del Protezione del Popolo senza dover far intervenire, almeno formalmente, le proprie truppe. I preparativi sembrano a buon punto: l’Ufficio del Governatore di Kilis ha già annunciato l’istituzione di una “zona di sicurezza speciale” al confine con il Cantone di Efrîn nel Rojava per un periodo di 7 giorni, e numerosi carri armati e cannoni sono stati piazzati nel territorio a ridosso della Siria. 

Dopo i primi ‘spettacolari’ – e assai mediatizzati – attacchi di venerdì contro alcune postazioni dei jihadisti nel nord della Siria da parte dei carri armati turchi, la tanto sbandierata campagna militare di Ankara contro lo Stato Islamico (servita per far abboccare il sistema mediatico internazionale e sdoganare il sostegno Usa e Nato) è praticamente cessata. Da venerdì non si segnala infatti alcuna azione bellica nei confronti dei fondamentalisti che anzi pare stiano approfittando della persecuzione turca nei confronti dei curdi per organizzare meglio le proprie forze.

Intanto è guerra aperta contro il Pkk sia all’interno che all’esterno dei propri confini, bersagliando soprattutto la zona di Qandil, dove si trovano i comandi della resistenza curda. Dopo il sostegno di Washington e il tiepido ‘si’ arrivato anche dal consiglio degli ambasciatori dell’Alleanza Atlantica, addirittura il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si è espresso a favore della guerra turca contro i curdi, nonostante questi rappresentino una delle poche forze realmente in campo contro l’espansione del Califfato e del terrorismo jihadista in Medio Oriente. “So che queste azioni intraprese dalla Turchia sono in accordo con la carta Onu, come modalità di esercizio dell’autodifesa” ha detto Ban Ki-moon riferendosi all’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite.
Ieri almeno nove guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan sono morti nei bombardamenti realizzati dagli F16 di Ankara al confine tra Kurdistan turco e Kurdistan iracheno, nella provincia di Dohuk. Secondo alcuni siti curdi le truppe di Ankara hanno addirittura aperto il fuoco contro un gruppo di profughi del Rojava che tentavano di superare il confine per tornare a Kobane, ferendo un bambino di sei anni.

Ieri la maggioranza dei deputati del par­la­mento turco ha boc­ciato la proposta di formare una com­mis­sione di inchie­sta sugli attentati che recentemente hanno colpito un comizio dell’Hdp a Diyarbakir e poi i giovani attivisti di sinistra a Suruc, intenzionati a recarsi a Kobane per partecipare alla ricostruzione; a favore hanno votato i rappresentanti del Partito Democratico dei Popoli e del Partito Repubblicano del Popolo, contro gli islamisti dellAkp e i nazionalisti di destra dell’Mhp. 

Intanto nel paese si diffondono gli allarmi su possibili nuovi attentati, alcuni reali e giustificati – come quello ‘previsto’ nella regione di Antiochia, al confine con la Siria, abitata da popolazioni di origine araba – ed altri invece diffusi ad arte dal regime per poter giustificare una campagna repressiva che non accenna a fermarsi. Ad esempio ultimamente le autorità turche hanno diffuso una allerta sul rischio di possibili attentati contro i trasporti pubblici ad Istanbul.

Nel paese la repressione turca e la reazione della resistenza curda continua a mietere vittime. La polizia di Ankara ha ucciso a Cizre un giovane di soli 17 anni, Hasan Nere, ed ha ferito altri due occupanti di un’automobile bloccata ad un check point. Contemporaneamente un commando del Pkk ha attaccato una pattuglia della polizia nel distretto di Cinar, uccidendo un poliziotto; nella sparatoria sarebbe morto anche un civile. In un altro episodio tre soldati turchi sono rimasti uccisi oggi in un attacco del Pkk contro il loro convoglio nella provincia di Agri. “A causa dell’attacco lanciato dall’Organizzazione separatista del terrore tre dei nostri valenti soldati sono rimasti uccisi”, ha fatto sapere l’esercito di Ankara nel consueto stile.
Nelle ore precedenti tre soldati turchi erano stati feriti a Dogu­ba­ya­zit mentre nella provincia di Mus un commando ha ucciso un alto uffi­ciale dell’esercito, Arslan Kulaksiz. A Lice due poli­ziotti sono stati arre­stati dal fronte combattente del Pkk (Hpg), mentre a Dicle e ad Hak­kari sono state col­pite da razzi le stazioni di poli­zia locale e un tribunale. A Diyarbakir, la più popolosa delle città curde, interi quartieri sono sotto il controllo dei comitati di autodifesa creati dalle organizzazioni del movimento di liberazione, mentre manifestazioni si stanno tenendo ininterrottamente ormai da giorni in tutto il paese, sistematicamente attaccate dalla polizia in assetto antisommossa con lacrimogeni, idranti, pallottole di gomma e anche armi da fuoco. Dopo che martedì era stato fatto saltare un tratto del gasdotto che collega la Turchia all’Iran, nella provincia di Agri, ieri ad essere sabotato è stato invece l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan che trasporta il petrolio estratto nel Kurdistan iracheno – il cui governo guidato da Barzani continua a collaborare con gli aguzzini dei propri connazionali – verso la Turchia. Attacchi sono stati segnalati anche a Mardin, Erzurum e Bitlis. 

Nel quasi completo silenzio della stampa internazionale e della cosiddetta comunità mondiale che sembra aver distolto rapidamente lo sguardo, in tutta la Turchia continua la maxi retata iniziata venerdì scorso contro le organizzazioni popolari curde e i partiti di sinistra radicale. Il numero dei militanti e degli attivisti arrestati era arrivato ieri all’incredibile cifra di 1300. Di questi, per stessa ammissione delle autorità di Ankara, 800 sarebbero riconducibili ai movimenti curdi, un centinaio alle organizzazioni comuniste e anarchiche turche, e solo un centinaio i membri di presunte organizzazioni collaterali allo Stato Islamico, ad Al Qaeda e ad altre sigle jihadiste. Senza contare che in “tempi normali”, dal gennaio al giugno di quest’anno, le forze di sicurezza turche hanno arrestato ben 648 militanti del Fronte del Popolo (Halk Cephesi), organizzazione comunista dichiarata fuorilegge.

Solo ieri sono state ben 302 le persone rastrellate dalla polizia in 39 diverse località della Turchia, mentre invece 15 militanti jihadisti arrestati nei giorni scorsi ad Istanbul e accusati di sostenere lo Stato Islamico – tra loro 11 stranieri – sono stati rimessi in libertà dopo che la Procura non ha trovato prove del loro coinvolgimento in attività criminali. 

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