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Il Fmi si sfila e apre la strada alla Grexit

Il Fondo Monetario Internazionale si sfila dal negoziato per il nuovo “piano di salvataggio” della Grecia. E lo fa nel modo lurido che è tipico di chi si sente padrone del mondo.

L’istituto economico con base a Washington e presieduto dalla fedelissima di Sarkozy, Christine Lagarde, ha fatto filtrare prima un documento interno e poi la chiacchierata anonima di un funzionario con la stampa specializzata, per spiegare che non parteciperà concretamente a nessun nuovo piano di aiuti se prima Atene non avrà fatto le “riforme strutturali” e contemporaneamente l’Unione Europea – a cui sono intestati ora i debiti greci, dopo il loro trasferimento dalla banche private ai bilanci pubblici – non avrà deciso una sostanziale riduzione di quel debito, per renderlo “sostenibile”.

Nel complicato gioco a tre (Fmi, Unione Europea-Bce, Grecia), dunque, il Fondo intende premere sia sulla Germania che sulla Grecia perché “facciano ognuno la propria parte”.

«Per assicurare la sostenibilità del debito in una prospettiva di medio termine, sono necessarie decisioni difficili da entrambe le parti. Per la Grecia dal lato delle riforme, per i suoi partner europei dal lato del debito ellenico». Più precisamente, «Inutile illudersi che solo una delle parti possa risolvere il problema. È chiaro che ci vorrà del tempo prima che le parti siano pronte a prendere queste decisioni».

Nel frattempo il Fmi parteciperà alle discussioni sul “piano” da 86 miliardi, ma non prenderà nessuna decisione operativa – e impegnativa finanziariamente – finché il debito non sarà stato ridotto con il consenso della Ue.

Questo atteggiamento poggia su un dato di fatto indiscutibile, sollevato più volte dalla delegazione greca fin quando – nella notte tra il 12 e il 13 luglio – Alexis Tsipras non ha alzato bandiera bianca. Il debito greco – salito “grazie” ai diktat e agli “aiuti” della Troika dal 120 al 180% del Pil, nonostante un massacro sociale di dimensioni belliche, è assolutamente non restituibile. Insostenibile, in gergo finanziario.

Quindi potrebbe sembrare una posizione di buon senso, sostenuta peraltro anche dallo statuto del Fmi, che impedisce di erogare finanziamenti a chi si sa non potrà restituirli. Ma a questo punto dell’evoluzione della crisi greca è di fatto uno staccare la spina dopo aver portato il malato in condizioni terminali.

C’è infatti anche l’assoluta certezza che il Bundestag di Berlino – l’ultimo Parlamento sovrano ancora esistente nella Ue, l’unico che possa impedire decisioni “europee” – ben difficilmente potrà dare l’ok all’esborso di 86 miliardi, complessivamente, senza la partecipazione del Fmi. Quindi il tirarsi indietto dell’istituto di Washington diventa un assist per chi, come Wolfgang Schaeuble, ritiene la Grexit l’unica soluzione.

È inutile che vi chiediate “ma allora perché avete costretto Atene ad accettare misure socialmente impossibili per cercare di ripagare un debito impossibile?”

Come abbiamo spiegato ogni giorno, il problema non è economico, ma esclusivamente politico. Il governo targato Syriza era dirazzante rispetto alla governance europea. Peggio, rischiava di diventare contagioso per paesi che stanno per andare ad elezioni politiche (Spagna, Portogallo, Irlanda, con qualche probabilità anche l’Italia, il prossimo anno). Quindi andava stroncato, cambiato, stravolto. La resa di Tsipras era il preliminare a una maggioranza più “europea” ad Atene, e un monito per quanti ancora si potevano illudere che ci potesse essere “un’altra Europa”, rifomista e riformabile.

Questo obiettivo è stato raggiunto e ora la Grecia è alle prese con rebus sociali politicamente irrisolvibili per il governo uscito dalle urne a gennaio. Ora il Fmi si sfila e lascia affondare un paese.

Ma non si tratta di una decisione che ha per obiettivo soltanto la Grecia. L’istituto di Washington, creando le condizioni per la Grexit (temporanea o definitiva) nei prossimi mesi, colpisce contemporaneamente anche la credibilità globale dell’euro, che a quel punto non sarebbe più “irreversibile” e si trasformerebbe di fatto in un regime di cambi fissi e a geometria variabile. Un sistema dove si può entrare e uscire, a seconda delle fasi economiche, com’era lo Sme negli anni ’80.

La decisione del Fmi, come ultima conseguenza, rende la “capriola” di Tsipras completamente inutile. Il suo penoso “non c’era alternativa” viene infatti smetito da una delle controparti. Che ora gli presenta come condanna quella stessa situazione che avrebbe potuto esser presa come scelta di rottura e liberazione, se adeguatamente preparata: la Grexit, appunto.

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Il circolo vizioso del debito greco

di Yanis Varoufakis

Il senso della ristrutturazione del debito è ridurre il volume dei nuovi prestiti necessari per salvare un’entità insolvente. I creditori offrono la possibilità di alleggerire il debito per avere indietro più valore e concedere meno finanziamenti possibili all’entità in questione. I creditori della Grecia sembrano incapaci di comprendere questo semplice principio finanziario. Riguardo al debito greco, negli ultimi cinque anni è emerso un chiaro modello che a tutt’oggi resta inalterato.

 

Nel 2010, l’Europa e il Fondo monetario internazionale concessero all’insolvente stato greco prestiti per un valore pari al 44% del Pil del paese. Il solo accenno a una ristrutturazione del debito appariva come inammissibile ed era un pretesto per ridicolizzare quelli di noi che osavano suggerirne l’inevitabilità.

 

Nel 2012, essendo il rapporto debito-Pil schizzato alle stelle, i creditori privati della Grecia subirono un “haircut”, ovvero un taglio nominale del debito, addirittura del 34%. Allo stesso tempo, però, nuovi prestiti pari al 63% del Pil andarono a sommarsi al debito nazionale greco. Alcuni mesi più tardi, a novembre, l’Eurogruppo indicò che l’alleggerimento del debito sarebbe stato attuato entro dicembre 2014, una volta che il programma del 2012 si fosse concluso “con successo” e il bilancio del governo greco avesse raggiunto un avanzo primario (che esclude il pagamento degli interessi).

 

Giunti nel 2015, però, pur essendo stato raggiunto l’avanzo primario, i creditori della Grecia non hanno voluto neanche parlare di alleggerimento del debito. I negoziati sono entrati in una fase di stallo che è durata cinque mesi culminando nel referendum greco del 5 luglio, con il quale gli elettori hanno espresso un netto rifiuto verso nuove misure di austerità, e nella successiva resa del governo greco, sancita dall’accordo stipulato all’Eurosummit il 12 luglio. Tale accordo, sul quale ora si basano le relazioni della Grecia con l’Eurozona, perpetua un approccio in vigore ormai da cinque anni che colloca la ristrutturazione del debito al termine di un’incresciosa sequenza di strette fiscali, contrazioni economiche e fallimenti programmatici.

 

Di fatto, la sequenza del nuovo “salvataggio” previsto dall’accordo del 12 luglio inizia, com’era prevedibile, con l’adozione, entro la fine del mese, di obiettivi di medio termine e severe misure fiscali, che significano un altro periodo di rigida austerità. A metà estate è prevista, poi, una trattativa per un altro ingente prestito, pari al 48% del Pil (il rapporto tra debito e Pil è già superiore al 180%). Infine, non prima di novembre, e dopo che la prima revisione del nuovo programma sarà conclusa, «l’Eurogruppo si appresterà a considerare, se necessario, possibili misure aggiuntive… con l’obiettivo di fare sì che il fabbisogno finanziario lordo si mantenga su livelli sostenibili».

 

Durante i negoziati tenutisi tra il 25 gennaio e il 5 luglio scorso, a cui io stesso ho partecipato, ho ripetutamente suggerito ai nostri creditori un menù di swap sul debito, il cui scopo era ridurre la quantità di nuovi fondi erogati dal Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e dall’Fmi per rifinanziare il debito greco, nonché assicurare che la Grecia avesse, entro il 2015, i requisiti necessari per il programma di acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea, noto come quantitative easing, ripristinando così l’accesso del paese ai mercati dei capitali. Avevamo stimato che non sarebbero serviti più di 30 miliardi di euro (pari a 33 miliardi di dollari, o al 17% del Pil) sotto forma di finanziamenti erogati dal Mes, nessuno dei quali sarebbe stato utilizzato per il bilancio primario del paese.

 

Le nostre proposte non sono state respinte, bensì semplicemente non sono mai state prese in esame, sebbene avessimo avuto riscontri certi sulla loro precisione tecnica e solidità legale. La volontà politica dell’Eurogruppo è stata d’ignorare le nostre idee, lasciar fallire i negoziati, imporre una chiusura delle banche a tempo indeterminato e costringere il governo greco ad accettare qualunque accordo, compreso un nuovo e pesante prestito che ammonta a quasi il triplo di quello da noi proposto. Ancora una volta, i creditori della Grecia hanno messo il carro davanti ai buoi insistendo che il nuovo prestito fosse concordato prima di qualunque ipotesi di alleggerimento del debito.

 

Un debito insostenibile perde di valore prima o poi, ma la natura e la tempistica di questa svalutazione fanno un’enorme differenza in termini di prospettive economiche di un paese. Inoltre, oggi la Grecia sta vivendo una grave crisi umanitaria perché l’inevitabile ristrutturazione del suo debito è stata usata come scusa per rimandare quella stessa ristrutturazione all’infinito. A tale proposito, un funzionario di alto livello della Commissione europea una volta mi ha chiesto: «Visto che il vostro debito verrà tagliato comunque, perché insistete per attuare la ristrutturazione adesso, sprecando capitale politico prezioso?»

 

La risposta avrebbe dovuto essere ovvia. Una ristrutturazione del debito ex ante, che riduca il volume dei nuovi prestiti e renda il debito sostenibile prima dell’attuazione di eventuali riforme, ha buone possibilità di convogliare investimenti, stabilizzare redditi e spianare la strada verso la ripresa. Al contrario, una riduzione del debito come quella accordata alla Grecia nel 2012 sulla scia di un fallimento programmatico contribuisce soltanto ad alimentare la spirale negativa.

 

Perché i creditori della Grecia si rifiutano di procedere alla ristrutturazione del debito prima che vengano concordati nuovi prestiti? E perché optano per un nuovo pacchetto di prestiti molto più consistente del necessario?

 

Le risposte a questi interrogativi non si possono trovare nella finanza, pubblica o privata, poiché esse appartengono al regno della politica di potere. Il debito è il punto di forza del creditore e, come la Grecia ha imparato soffrendo, un debito insostenibile trasforma il creditore in un moderno Leviatano. La vita nella morsa del debito sta diventando odiosa, abbrutente e, per molti dei miei compatrioti, breve.

da Ilsle24Ore

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1 Commento


  • walter

    fin dall’inizio la troika ha avuto come unici e soli obiettivi l’abbattere un governo di sinistra e controcorrente, e quindi non gradito, per sostituirlo con un governo sottomesso alla guida di un fantoccio opportunista (modello renzi, per dire), e l’usare cinicamente un piccolo stato (dal punto di vista economico, perché solamente di questo interessa a lor “signori”) per mostrare a realtà più importanti per la stabilità del sistema UE – italia in primis – cosa succede a chi non ubbidisce e non china la testa.
    il nazifascismo usava le armi e la violenza fisica per imporsi; il fascismo ultra-liberista usa i metodi viscidi degli strumenti politico-economici e del ricatto. difficile dire quale dei due sia peggiore…

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