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Cina /1. Il caso Shanghai

Di Cina si è parlato molto durante quest’anno per le vicende di Hong Kong, della Banca Asiatica d’Investimenti, del ruolo dei Brics, della crisi del mercato borsistico di Shanghai.

In particolare sulla borsa di Shanghai abbiamo letto una ridda di articoli di commentatori che dimostrano ancora una volta di ignorare i fondamentali dell’economia cinese, i suoi caratteri socio-economici, ecc…

La prima domanda è che cosa ci fa una borsa in Cina? Quando venne istituita?

La borsa di Shanghai è stata istituita il 26 novembre del 1990 ed è entrata in funzione il 19 dicembre dello stesso anno.

Per statuto non ha come funzione la ricerca del profitto ma è un luogo strettamente regolamentato che ha come compito lo scambio dei titoli, l’ammissione delle società alla capitalizzazione ecc…

Quando fu istituita, serviva principalmente alla raccolta fondi per le aziende pubbliche, che in questo modo raccolsero i fondi necessari alla loro ristrutturazione negli anni ’90. L’ingresso di società private ne ha accresciuto il ruolo ma ha avuto come contropartita una maggiore volatilità degli indici.

All’epoca era ritenuto un metodo “moderno” e che la maggior parte dei paesi sviluppati possedevano. Era considerato un esempio di modernità ed un modo per raccogliere fondi da destinare alla crescita.

Nel gennaio-febbraio del 1992 un anziano Deng Xiaoping scriveva: la finanza e il mercato azionario sono cose buone o cattive? Comportano dei pericoli? Sono qualcosa di intrinseco al capitalismo? Il socialismo può farne uso? Consentiamo alle persone di rimanere del loro giudizio, ma noi dobbiamo sperimentare queste cose. Se, dopo uno o due anni di sperimentazione, si rivelano pratiche fattibili, possiamo espanderle. Altrimenti, possiamo porvi uno stop e farla finita una volta per tutte. Possiamo porvi fine tutto in una volta o gradualmente, totalmente o parzialmente. Cosa c’è d’aver paura? Finché manterremo questo atteggiamento, andrà tutto bene, e non faremo nessun macroscopico errore. In breve, se noi vogliamo che il socialismo raggiunga la superiorità sul capitalismo, non dovremmo esitare ad apprendere dai risultati raggiunti dalle altre culture, inclusi i paesi capitalisti sviluppati, tutti i metodi avanzati d’operazione e i metodi di management che riflettono le leggi che governano la moderna produzione socializzata“.

Cioé a quell’epoca, come dicevo, la borsa era considerata un elemento di modernità, un elemento che rifletteva “la moderna produzione socializzata”. Da allora, è rimasta là, e crisi dopo crisi la legislazione si è affinata. Anche adesso, nella crisi attuale, verranno studiati dei metodi per ridurre la volatilità del mercato. Chiuderla sarebbe stato peggio, nonostante il ruolo limitato della borsa fino agli anni più recenti.

Certamente oggi la Borsa di Shanghai rappresenta più un problema che altro, e dunque è evidente che verranno studiati nuovi metodi per riprenderne in mano le redini. 

Tuttavia l’impatto delle crisi borsistiche di Shanghai (la borsa di Shenzhen non ha registrato fluttuazioni così forti)sull’economia reale non va sovrastimata. 

La differenza fondamentale tra il mercato borsistico cinese rispetto ai mercati occidentali è la scarsa finanziarizzazione dell’economia cinese, il che riduce fortemente le possibili ricadute sull’economia reale delle forti fluttuazioni come quelle osservate negli ultimi mesi.

I titoli del debito pubblico non risentono direttamente delle fluttuazioni del mercato azionario, e dunque un crollo del mercato borsistico non pregiudica le politiche pubbliche.

Shanghai è inoltre un mercato giovane, un mercato fortemente limitato, “di facciata”, diremmo. Peculiari meccanismi di vendita/acquisto automatico delle azioni hanno favorito le forti fluttuazioni. Società di intermediazione che consentivano l’acquisto delle azioni “a prestito”, ecc…(il cosiddetto “margin trading”)e tutta una serie di caratteristiche tecniche della piazza di shanghai che sono alla base della forte erraticità del mercato, stanno per essere riviste.

Ma al di là di questo, una borsa cresciuta in poco tempo del 150% e crollata “solo” del 30%, questo è ciò che dovrebbe far riflettere ed essere considerato, in termini borsistici, il vero miracolo. Il crollo era dunque abbastanza prevedibile dopo l’iniziale euforia, e stupisce più che altro lo stupore.

Sul mercato di Shanghai non possono investire tutti indiscriminatamente, cinesi e non, e vi sono delle forti limitazioni, e differenti tipologie di azioni, A e B. Questo fa sì che il mercato cinese, Hong Kong escluso, non possa divenire un rifugio per la speculazione internazionale. E anche questo è un fatto da considerare.

Tuttavia può esserlo, e la crisi lo ha evidenziato, per la speculazione domestica, e questo avviene in ogni caso non appena le regole lo consentono. 

Il governo è dunque intervenuto in due fasi: con la prima, ha ordinato alle aziende statali di non vendere azioni e ha istituito un fondo da 14 miliardi di dollari per tamponare le perdite. 

Tuttavia questo tipo di intervento non ha evitato ulteriori crolli. 

A questo punto è iniziata la fase due: il cambiamento delle regole di fondo sui meccanismi di vendita automatica, con le inchieste sul ruolo delle società di intermediazione, sul trasferimento a loro del rischio, ecc… per prevenire in futuro oscillazioni così forti. 

E’ evidente anche ai non esperti che un mercato che non decide da sé le sue regole, ma sottoposto ad una commissione governativa di controllo, in un universo “chiuso”, il cambiamento delle regole e la riduzione delle possibilità di speculazione avranno alla lunga effetti stabilizzanti. Il Mercato non può alla lunga vincere contro lo Stato, nonostante in Occidente si pensi spesso il contrario. Non contro lo Stato cinese, almeno…

Con il rallentamento della crescita, da anni ricercato dal governo, molti hanno cercato rifugio nella speculazione finanziaria. Il risultato è che questi, in gran parte grandi patrimoni, sono stati delusi.

Il fatto che una buona fetta di milionari cinesi si stia trasferendo all’estero, ufficialmente per sfuggire ad inquinamento, garantire migliori livelli di istruzione ai figli, e per timori legati alla sicurezza dei cibi è un altro fenomeno da considerare.

Gli scandali legati alla contraffazione del cibo non hanno dimensioni di massa da instillare una tale paura, e le università cinesi garantiscono notoriamente ottimi livelli di istruzione.

Lo stesso problema dell’inquinamento dell’aria è localizzato alle grandi città e non colpisce allo stesso modo le province, dove si respira aria pulita.

Nel complesso il fenomeno della “fuga dei ricchi” non può che essere considerato un fatto positivo. Vuol dire che non trovano in Cina le condizioni, non solo ambientali, ma di “sistema”, per essere accolti e portare avanti il proprio stile di vita. Questo ridurrà ulteriormente il loro ruolo in Cina, già scarso e frustrato dallo strapotere del Partito. 

Il famoso ingresso dei milionari nel Partito si è rivelata poco più che una macchietta.

La crisi cinese di cui ancora sognano certi commentatori nostrani commentando l’attuale caso del tracollo borsistico non si avrà né tra vent’anni, né prima, ma probabilmente neanche dopo.

Il carattere autocritico delle riflessioni ufficiali dei dirigenti cinesi sulle difficoltà interne del sistema cinese va interpretato correttamente nell’ambito del confronto strategico con l’Occidente, e non va preso per buono tout-court come argomento rafforzativo della teoria dell’imminente crisi del sistema cinese.

Quello cinese è nonostante le contraddizioni un sistema vincente, economicamente e socialmente, e il fatto che si continui a pronosticare sulla sua crisi significa che non se ne sono compresi a fondo i lineamenti base, i fondamentali. 

Nel terzo mondo non vi è modello di crescita che garantisca altrettanto bene il recupero del gap con l’Occidente. Può essere e sarà perfezionato, ma i suoi fondamenti sono solidi.

Il tema è semmai quando e come questo tipo di modello si diffonderà.

 

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1 Commento


  • Ascanio Bernardeschi

    Sono d’accordo su molti punti. Ma non mi convince l’affermazione secondo cui la presenza demilionari nel partito sarebbe una “macchietta”. Vorrei vedere qualche elemento fattuale a supporto di questa affermazione, perché se invece il ruolo dei capitalisti si andasse accrescendo nella società e nel partito, si potrebbe verificare il rischio di uno slittamento irreversibile verso un’economia di mercato tout court, che certamente non è la situazione del momento

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