Obama si era lamentato nei giorni scorsi dello scarso impegno dei paesi arabi nel contrasto allo Stato Islamico auspicando, anzi chiedendo esplicitamente un maggior coinvolgimento militare delle nuove potenze regionali. Eccolo servito.
Ieri l’Arabia Saudita, capofila di un Polo Islamico costruito sull’unità di interessi e destini delle petromonarchie, e sempre più sfacciato nelle proprie pretese egemoniche, ha annunciato la creazione di una coalizione di ben 34 paesi di due diversi continenti. I wahabiti, a nome di uno schieramento musulmano ma più che altro sunnita, non hanno neanche celato più di tanto l’obiettivo della propria mossa, annunciando che lo scopo della nuova coalizione sarà quello di “combattere il terrorismo militarmente e ideologicamente” ma anche (soprattutto, verrebbe da dire) di sbarrare la strada all’alleanza dei regimi e dei paesi sciiti le cui sorti sono state risollevate da un intervento militare diretto della Russia in Medio Oriente che ha scompigliato improvvisamente le carte in tavola.
E’ contro l’Iran, e i suoi alleati in Siria, Iraq e Libano che l’Arabia Saudita chiama a raccolta i suoi alleati e i paesi su cui accampa interessi e nei quali muove le sue pedine. Non è un caso che nessuno dei paesi sciiti sia stato chiamato a far parte della nuova coalizione e che da essa si siano sfilati paesi come l’Oman o l’Algeria, pure a maggioranza sunnita. Mentre il primo mantiene buoni rapporti con Teheran ed ha svolto una preziosa opera di mediazione per giungere all’accordo sul nucleare iraniano con Washington, la seconda riconosce il governo Assad e tendenzialmente tende a sfilarsi da un conflitto tra le due correnti dell’Islam che rischia di precipitare in una guerra totale.
Della lunga lista fanno parte non solo paesi arabi o mediorientali ma anche numerosi paesi nord e centro-africani in cui negli ultimi anni l’influenza economica, militare e politica dell’Arabia Saudita e delle petromonarchie è cresciuta rapidamente – Autorità Nazionale Palestinese, Bahrein, Bangladesh, Benin, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Gibuti, Giordania, Guinea, Kuwait, Libano, Libia, Maldive, Malesia, Mali, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Pakistan, Qatar, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Togo, Tunisia, Turchia, Yemen – e che nel progetto del Polo Islamico intravedono la possibilità di perseguire i propri interessi a scapito deii competitori regionali, ma anche di svincolarsi dalla stretta del controllo statunitense e francese.
A detta dei dirigenti sauditi, anche la potente Indonesia e altri dieci paesi si sono detti disponibili a sostenere il nuovo polo ed eventualmente a prepararsi a farne parte in un prossimo futuro.
Un discorso a parte merita lo Yemen, che di fatto è un paese occupato militarmente dalle truppe della nuova coalizione le cui prove generali sono state compiute da Riad e soci proprio contro i ribelli sciiti Houthi (vicini a Teheran). L’adesione al consorzio sunnita infatti è arrivato da un governo fantoccio che può vantare un controllo assai parziale del paese invaso e occupato dalle truppe di numerose petromonarchie. Lo stesso destino toccato qualche anno fa al Bahrein, dove la rivolta della popolazione sciita fu schiacciata nel sangue dalla repressione del regime locale soprattutto grazie ad una mini-invasione di truppe saudite.
Molti i commenti stupiti, sulla stampa internazionale, rispetto all’adesione dell’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen che si impelaga così in una compagine capitanata da quei paesi del Golfo che in nome della comune avversione per l’asse sciita non hanno esitato a siglare un patto di non aggressione con Israele e che hanno fomentato e supportato la nascita e lo sviluppo di correnti armate jihadiste in tutti i paesi del Medio Oriente. Forse l’Anp spera, in cambio della propria partecipazione, di ricevere un sostegno maggiore da parte di quelle petromonarchie che finora hanno più che altro foraggiato i gruppi islamisti e inglobato alcuni importanti spezzoni della borghesia palestinese all’interno della propria sfera di influenza. Ma il calcolo potrebbe rivelarsi infondato e foriero di conseguenze non proprio positive proprio mentre la popolazione palestinese scalpita e dà segni di ripresa della lotta contro l’occupazione e la colonizzazione.
La Turchia – che non ha mai abbandonato il sogno di creare un polo neo-ottomano, per ora frustrato dai rovesci della Fratellanza Musulmana soprattutto in Nord Africa e dal riavvicinamento alla Russia delle repubbliche turcofone ex sovietiche – soffre la leadership saudita del nuovo polo politico-militare. Le diatribe tra Turchia e Arabia Saudita sono emerse non più tardi di pochi giorni fa alla conferenza dei ribelli sunniti ‘siriani’ convocata a Riad dalla casa reale wahabita. Ma per Ankara mettersi sulla scia del Polo Islamico significa, almeno per ora, tentare di rompere l’isolamento in cui Erdogan ha cacciato una potenza regionale ferita ma non sconfitta, e che non ha mai rinunciato al progetto di mettere le mani sia sulla Siria sia sul Nord dell’Iraq (dove Ankara ha mandato nei giorni scorsi una brigata corazzata).
Neanche a dirlo il centro di coordinamento della nuova coalizione – che si somma a quella capitanata da Obama, che pure conta sulla timida e ambigua partecipazione delle petromonarchie, e a quella guidata dalla Russia – sarà basato nella capitale saudita.
L’alleanza dimostra la volontà del “mondo islamico di combattere il terrorismo e di essere un partner affidabile nella lotta mondiale contro questo flagello”, ha spiegato il ministro della difesa saudita Mohammad bin Salman, uno dei principi ereditari, in occasione di una conferenza stampa realizzata a Riad. “Per favorire il coordinamento con i paesi amici desiderosi di pace e con gli organismi internazionali” saranno creati dei meccanismi per “salvare la pace e la sicurezza internazionale” spiegava ieri l’agenzia saudita Spa.
Tra i paesi e le regioni alle prese con le varie forme di terrorismo che la coalizione si propone di combattere – e dove quindi la nuova aggregazione si auto legittima ad intervenire anche militarmente – il principe Mohammad ha citato “la Siria, l’Iraq, il Sinai (Egitto), lo Yemen, la Libia, il Mali, la Nigeria, il Pakistan e l’Afghanistan”. Di fatto un “cortile di casa” sul quale Riad e gli alleati rivendicano la sovranità e l’esclusività, in oggettivo contrasto non solo con l’asse sciita, ma anche con gli interessi di Stati Uniti, Unione Europea, Cina e Russia. Un obiettivo che il giovane principe Bin Salman, salito al trono dopo la morte del fratellastro, non ha mai nascosto, imprimendo una svolta ancora più decisa alle mire espansionistiche del regime wahabita. Non a caso il documento costitutivo del patto, che modifica radicalmente gli assetti geopolitici mondiali, subordina la formazione dell’alleanza regionale al “dovere di proteggere la nazione dell’Islam dal Male portato da tutti i gruppi e le organizzazioni terroristiche”. Una definizione di tipo religioso-ideologico dei propri nemici che naturalmente lascia molto spazio all’inserimento nella lista nera di organizzazioni che nulla hanno di terroristico ma che rispondono ad ideologie o fanno riferimento a schieramenti avversi a quelli di Riad, come ad esempio Hezbollah in Libano e Siria, o gli Houthi in Yemen, o altri gruppi politico-militari del mondo sciita e non solo.
«I nostri Paesi condivideranno intelligence, addestramento e forniranno se necessario truppe per combattere l’Isis in Siria e in Iraq» ha chiarito ieri il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, precisando che «ogni forma di cooperazione è possibile» come anche la volontà di operare «nel quadro delle organizzazioni internazionali». Una formulazione che sembra sia piaciuta all’amministrazione statunitense, che non vede l’ora che qualche potenza locale metta a disposizione dei suoi bombardieri delle forze di terra che facciano il lavoro sporco e che evitino a Washington un coinvolgimento militare in Medio Oriente troppo dispendioso e rischioso. Ma sembra più che ovvio che se una classe dirigente compie un passo storico come quello annunciato ieri non lo fa certo per portare “l’acqua con le orecchie” ai tradizionali padroni americani ed europei.
Quando al-Jubeir afferma che «Sono in corso colloqui fra noi, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e il Bahrein sulla possibilità di inviare in Siria contingenti di truppe speciali a sostegno della coalizione guidata dagli Usa» sta annunciando che le petromonarchie entreranno militarmente in gioco nei paesi dove per anni hanno sostenuto i jihadisti di vario colore e contribuito alla destabilizzazione per estendere i propri tentacoli, non necessariamente che si apprestano a fare un favore ad Obama. E’ evidente che la presenza di truppe dei paesi del polo sunnita sul terreno cambierebbe di nuovo gli equilibri che l’intervento militare russo di fine settembre ha imposto risollevando le sorti del governo siriano e di quello iracheno, rimettendo così in discussione i punti e la tabella di marcia finora negoziata a Vienna tra le potenze internazionali e regionali.
Certamente, il nuovo polo potrebbe rivelarsi un castello di carte, e potrebbe schiantasi o spaccarsi o assottigliarsi al primo contrasto tra le varie potenze che ne hanno deciso la costituzione. Del resto le divergenze strategiche e la competizione anche aspra non mancano di certo all’interno del cosiddetto Polo Islamico. Ma la nuova alleanza, almeno sulla carta, può godere di un potenziale enorme sotto tutti i punti di vista, da quello energetico a quello finanziario, da quello politico a quello militare. Nel giro di pochi anni Riad e soci hanno utilizzato gli enormi profitti derivanti dalla vendita dei combustibili fossili per scalare la classifica mondiale delle spese militari, dotandosi di un esercito moderno, agguerrito e pesantemente equipaggiato, già messo all’opera in diversi scenari di guerra reale. Mentre il Polo Islamico si rafforzava sul piano militare, politico e istituzionale con la creazione di organismi regionali di vario tipo, gli emiri investivano migliaia di miliardi di euro per fare shopping in tutto il mondo, diventando cruciali in numerosi settori economici di vari paesi che hanno considerato una manna dal cielo la liquidità proveniente dal Golfo Persico e che ora forse cominciano a sospettare che l’operazione non abbia prodotto solo benefici.
Intanto in Medio Oriente la tensione cresce, e non c’è potenza locale, regionale o internazionale che non stia schierando le proprie pedine in una escalation che non ha precedenti. Col rischio che la polveriera possa esplodere, che gli apprendisti stregoni dell’imperialismo lo vogliano o meno.
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