Quando sembrava che le trattative per la formazione di un governo catalano avviato sulla strada dell’indipendenza da Madrid fossero ad un punto morto e che lo scenario obbligato fosse lo scioglimento del Parlamento autonomo di Barcellona, sabato i nazionalisti moderati di Junts pel Si e gli indipendentisti di sinistra della Cup hanno raggiunto un accordo in extremis.
Che, occorre dirlo, non è esente da aspetti contraddittori e da numerose ombre, ma che al tempo stesso avviene all’insegna di una parziale discontinuità rispetto al passato grazie alla tenace resistenza da parte della Cup rispetto alla riconferma di Artur Mas alla guida del nuovo esecutivo. Una vittoria, quella della Cup, di tipo per ora simbolico ma importante.
Non sarà infatti l’autore dei tagli, delle privatizzazioni e di una politica autoritaria e liberista, oltre che al centro di varie inchieste per corruzione, a guidare il nuovo esecutivo di Barcellona. La Cup ha resistito, coraggiosamente e a lungo, non solo alle insistenze di Mas ma anche alla pressione crescente esercitata da vari ambienti mediatici e politici affinché si andasse alla formazione di un governo nazionalista “qualunque esso fosse” pur di non provocare la convocazione di rischiose elezioni anticipate che avrebbero potuto causare un calo delle forze politiche favorevoli alla fondazione di una Repubblica indipendente. Nella polemica con il resto del fronte indipendentista – compresi alcuni settori vicini o addirittura interni alla coalizione anticapitalista – una parte maggioritaria della direzione della Cup e settori consistenti della sua militanza hanno ribadito che l’indipendenza è uno strumento a disposizione del cambiamento, e non rappresenta di per sé un atto salvifico e risolutore.
Alla fine la rinuncia in extremis di Artur Mas, sulla spinta di alcuni esponenti della sua coalizione e di alcuni settori dell’associazionismo indipendentista teoricamente trasversale ma ampiamente egemonizzato dal nazionalismo moderato, hanno portato ieri sera all’elezione a capo del governo catalano di Carles Puigdemont. Esponente dello stesso partito del suo predecessore, dalla fine del franchismo rappresentativo degli interessi della borghesia catalana (Cdc), Puigdemont nel suo discorso di investitura ha affermato che si batterà per l’indipendenza ed ha annunciato un programma di governo assai diverso da quello gestito nella passata legislatura da Convergenza Democratica. Di fatto Puigdemont ha promesso investimenti sociali superiori al passato e una attenzione particolare per il lavoro, i diritti sociali e di cittadinanza, sulla base di un afflato socialdemocratico che è il frutto dell’accordo di governo con la Cup ma anche della debolezza dei settori più liberisti del suo partito di fronte all’ascesa sociale ed elettorale di Esquerra Republicana e della Cup in campo indipendentista e di En Comù Podem in campo federalista.
In cambio dell’estromissione di Artur Mas, però, la Cup ha dovuto concedere molto. Sul fronte simbolico e identitario, manifestando una severa autocritica rispetto alla sua intransigenza che ha rischiato di far fallire l’avvio dell’iter indipendentista; sul fronte politico, accettando di garantire al governo una sostanziale stabilità per i prossimi 18 mesi, cioè per tutto il periodo che nelle intenzioni del fronte indipendentista dovrebbe culminare con la proclamazione della Repubblica Catalana; sul fronte dell’agibilità istituzionale, accettando le dimissioni di due suoi parlamentari tra i più duri nei confronti di Mas e della Cdc e l’integrazione di altri due dei suoi eletti nella dinamica istituzionale del gruppo parlamentare di Junts pel Si. Inoltre il successore di Mas è comunque un esponente della destra di Convergenza Democratica, non certo un progressista.
Sacrifici accettati dalla Cup “a tempo determinato” e in nome dell’eccezionalità del contesto attuale, caratterizzato dalla presenza di alcune importanti condizioni utili alla formazione di uno stato catalano indipendente, obiettivo prioritario per la formazione e il suo elettorato. La Cup ha tenuto per quanto possibile la barra ferma nonostante le profonde differenze al suo interno, gestite attraverso un dibattito sempre serrato e inclusivo tra la militanza e l’area più larga dei simpatizzanti. Ed in questo modo la coalizione sociale e politica indipendentista è stata in grado di condizionare, seppur parzialmente, il campo nazionalista catalano. Ma i rischi che la sinistra anticapitalista catalana venga stritolata dal complesso gioco di trattativa e scontro tra forze più spregiudicate e consistenti non sono esigui.
Se il sacrificio accettato sortirà gli effetti sperati lo vedremo solo con il passare del tempo: la borghesia catalana non rinuncerà facilmente ai suoi obiettivi prioritari. Le classi dirigenti catalaniste negli ultimi decenni non hanno mai perseguito ipotesi esplicitamente indipendentiste, comode com’erano all’interno del loro ruolo di ago della bilancia della politica statale e di gestione più o meno indiscussa degli affari locali. Negli ultimi anni la crisi ha ampiamente ridotto gli spazi di mediazione con la borghesia nazionale spagnola. Contemporaneamente il processo di gerarchizzazione continentale e di concentrazione del potere verso l’alto determinati dal rafforzamento dell’Unione Europea hanno diminuito gli spazi di agibilità per la borghesia catalana, convincendo Convergenza Democratica e ambienti storicamente ‘regionalisti’ ad abbracciare la battaglia per l’indipendenza al punto da pretendere di guidarla. Ma, come dovrebbe essere anche per il campo anticapitalista, quello nazionalista borghese concepisce la possibile rottura con Madrid in funzione del raggiungimento dei propri interessi di classe e potrebbe quindi optare per una parziale retromarcia sull’indipendenza nel caso in cui riuscisse a strappare agli apparati statali maggiori margini di manovra, ad esempio in tema di autonomia fiscale e relazioni internazionali. Proprio mentre veniva bocciato come capo della Generalitat, Artur Mas ha gettato ieri un amo ai socialisti spagnoli, lasciando intendere che il suo partito potrebbe sostenere un governo statale formato da forze politiche – non la destra del PP, ovviamente – inclini ad un accordo con Barcellona. Un tale governo a guida socialista con Podemos, Iu e altre forze locali – ammesso che abbia i numeri e che i socialisti federalisti abbiano la meglio sulla fazione nazionalista spagnola del Psoe – potrebbe, in nome del male minore, avviare una rifondazione in senso federale e plurinazionale dello Stato Spagnolo. Tenendo dentro la Catalogna seppure con una dose ancora più ampia di autonomia. In un simile scenario, nato dalla ricontrattazione tra gli interessi della borghesia statale e di quella catalana nel contesto dell’Unione Europea, non solo Convergenza Democratica ma anche altri settori dello schieramento indipendentista moderato, oltre a Podemos e alle sinistre federaliste, potrebbero sentirsi più che soddisfatti.
Sapranno la Cup e le forze sociali che alla coalizione indipendentista e anticapitalista fanno riferimento essere all’altezza della sfida, far pesare i propri obiettivi e il proprio radicamento per impedire che la sperata rottura – sociale e nazionale – si tramuti in un nuovo livello di contrattazione tra le rispettive classi dominanti? Saprà la Cup, nei prossimi 18 mesi – ammesso che Puigdemont non si rimangi subito le promesse – coniugare conflitto sociale e politico e fedeltà al “Process” indipendentista senza negare sé stessa e senza farsi schiantare dalle immani pressioni che abbiamo visto già all’opera nella trattativa per la formazione dl governo catalano?
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Sull’andamento della trattativa tra Cup e Junts pel Si è utile consultare due articoli di Contropiano
www.contropiano.org/internazionale/item/34646
www.contropiano.org/internazionale/item/34555
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