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Russia: “onore ai generali bianchi” per la riconciliazione nazionale

Qualcuno in Russia torna a sollevare la questione della riabilitazione di generali bianchi che combatterono contro l’Esercito Rosso durante la guerra civile scatenata dalle ex truppe zariste, appoggiate dai governi occidentali, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre.
Lo ha fatto questa volta il deputato dell’assemblea legislativa di San Pietroburgo, Vitalij Milonov, del partito presidenziale Russia Unita, il quale ha chiesto al Procuratore generale Jurij Čajka di esaminare di nuovo la questione della “riabilitazione di vari russi – alcune migliaia, secondo Milonov – repressi negli anni della Guerra civile” e tra cui spiccano i nomi dell’ammiraglio Aleksandr Kolčak e del barone di origini tedesche Roman von Unghern-Šternberg, responsabili dei fronti che attaccavano la Russia sovietica dalla Siberia orientale, d’intesa con la legione cecoslovacca (ex prigionieri della prima guerra mondiale) e con il Giappone.
Ne ha dato notizia il quotidiano Izvestija, riportando anche la foto del monumento a Kolčak innalzato anni fa sul luogo della sua fucilazione, a Irkutsk, sulle rive del fiume Angara. Secondo le Izvestija, Milonov richiama l’attenzione del Procuratore sul fatto che in “seguito alla persecuzione di coloro <che non si inserivano nella ideologia del paradiso proletario>, morirono figure culturali di spicco, capi militari, tra cui il condottiero Roman von Ungern-Sternberg e l’ammiraglio, capo del movimento Bianco e ricercatore polare, Alexandr Kolčak”. Secondo il deputato, la riabilitazione dei militari e dell’intellighenzia darebbe <una spinta alla riconciliazione civile> nel difficile periodo di sfide geopolitiche attraversato oggi dalla Russia. “Il giovane governo sovietico”, scrive Milonov, “commise seri errori e delitti, che ebbero in seguito tragiche conseguenze. La riabilitazione di intellettuali, clero, militari, è particolarmente necessaria alla nostra società attuale. Dobbiamo valutare l’individuo non dalle posizioni dell’ideologia vittoriosa, ma dal punto di vista del suo contributo allo sviluppo della nostra casa comune, la Russia”.
Le Izvestija ricordano di come, già negli anni ’90, alti rappresentanti della Procura e dell’Esercito avessero chiesto la riabilitazione di Kolčak e di come il Collegio militare del Tribunale supremo russo l’avesse rifiutata, stabilendo che i meriti conseguiti dall’ammiraglio prima della Guerra civile non possano servire da giustificazione per le fucilazioni dei comunisti e per il “terrore contro la popolazione civile” scatenato dai reparti del suo controspionaggio. Ma la questione fu poi nuovamente sollevata da altre istanze giudiziarie, lasciando dunque la porta aperta a qualunque appello alla riabilitazione. Nei confronti di von Unghern, il Tribunale regionale di Novosibirsk rifiutò la sua riabilitazione nel 1998, riconoscendolo colpevole di “lotta armata contro il potere sovietico allo scopo del suo rovesciamento e la restaurazione della monarchia, colpevole della fucilazione di cittadini sovietici e di simpatizzanti del potere sovietico e anche dell’incendio di villaggi che si trovavano sulla strada delle sue divisioni”.
Da un punto di vista strettamente storico, si deve riconoscere che il deputato Milonov non scopre nulla di nuovo: il fine della riconciliazione civile è stato invocato e continua a esserlo, in aule parlamentari a noi più prossime, per la riabilitazione di italici generali colpevoli di eccidi in Slovenia, Libia, Etiopia… Ed è forse appena il caso di ricordare come i delitti di cui fu accusato Kolčak – fucilazioni in massa, terrore, dittatura militare, tradimento della patria al servizio di Francia, Inghilterra e Giappone –  fossero stati da lui implicitamente riconosciuti come tali, nella ricostruzione dei fatti data nel corso degli interrogatori (i cui verbali furono pubblicati nel 1925 e di nuovo editati nel 2015) dal 21 gennaio 1920, giorno della sua cattura, al 6 febbraio, alla vigilia della sua fucilazione.
Da un punto di vista politico è forse sufficiente e necessario ricordare che, a dispetto del signor Milonov, il “giovane governo sovietico” commise sì “seri errori”, molti dei quali corretti prontamente, sulla base delle esperienze che via via si presentavano; ma non commise certo il famoso “errore” che Marx aveva imputato alla Comune di Parigi, di “non aver marciato subito su Versailles”; non commise errori di “cristiana carità” o di benevolenza nei confronti di coloro marciavano su Mosca a suon di cannoni. 
Forte di quella prima esperienza di potere operaio e degli insegnamenti tratti da Marx, il partito bolscevico e il governo sovietico, trascinati in una sanguinosa guerra civile scatenata da truppe zariste e eserciti di una decina di paesi stranieri (non mancarono, ovviamente, nemmeno allora, reparti italiani), cercarono nel corso di tre anni di tenere sempre l’offensiva, nonostante momenti difficilissimi, ma soprattutto basarono la propria linea di azione su un’attenta analisi di classe. “Abbiamo vinto Kolčak e Denikin” scrisse Lenin nel settembre 1920, “solo dopo che è mutata la struttura sociale dei loro eserciti”. E un mese dopo aggiungeva: “Quando Kolčak e Denikin marciavano dalla Siberia e dal sud, i contadini erano con loro: a loro non piaceva il bolscevismo, perché i bolscevichi requisiscono i cereali a prezzo fisso. Ma dopo che i contadini ebbero fatto in Siberia e in Ucraina l’esperienza del potere di Kolčak e di Denikin, si sono resi conto che non c’è altra scelta: o vai verso il capitalista, e lui ti dà in schiavitù al latifondista, oppure vai dietro all’operaio che, è vero, non ti promette il paese della cuccagna e ti chiede invece disciplina di ferro e risolutezza nella lotta, ma ti libera dalla schiavitù dei capitalisti e dei latifondisti”. La famosa “Terza rivoluzione”, invocata nel marzo 1921 dagli ammutinati di Kronštadt, non era che il tentativo fatto, ancora una volta, da ex ufficiali bianchi e da Francia e Inghilterra, di resuscitare il potere di capitalisti e latifondisti, sventolando il vessillo di una “terza via”, “sbarazzandosi del funesto potere dei comunisti”. Anch’essi, come il signor Milonov, miravano “allo sviluppo della nostra casa comune, la Russia”, a spese di operai e contadini sovietici.

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