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Fare in Libia quello che non è riuscito in Siria. Il sogno del Pentagono

Una tentazione cresce nell’establishment statunitense: quella di riuscire a fare in Libia quello che non è riuscito a fare in Siria. In quest’ultimo teatro, proiezione delle operazioni di “regime change” in Medio Oriente avviato nel 2003 in Iraq e proseguito nel 2011, l’entrata in campo della Russia ha scombussolato definitivamente il ruolino di marcia del rovesciamento di Assad  che doveva concludersi come desiderato dal combinato disposto degli interessi di Washington, Arabia Saudita, Turchia, Francia e Gran Bretagna. 

Ma le cose sono andate diversamente. La Siria ha resistito per quattro anni e poi è arrivato l’intervento diretto russo a creare “sul campo” un nuovo equilibrio di forze. I tagliagole dell’Isis, dopo aver a lungo dilagato grazie alle complicità di cui usufruiscono, hanno finalmente cominciato a prendere sberle, mentre si è andata definendo una alleanza di stati e organizzazioni contrapposte all’alleanza tra potenze occidentali e borghesie arabo-islamiche. Insomma una operazione andata male che a questo punto i vertici statunitensi devono completamente ripensare. Ed è qui che si delinea l’incubo descritto da Alberto Negri sul Sole 24 Ore: “un cessate il fuoco che non assegni la vittoria a nessuno”. Una via d’uscita che prende atto della impossibilità di ottenere vantaggi, se non al rischio di una escalation che l’intervento russo ha reso non più asimmetrica come i conflitti che Washington, Londra e Parigi si erano abituati a vincere con facilità.

Nei  think thank statunitensi, ma soprattutto al Pentagono, si va allora facendo strada l’idea di recuperare vantaggi su un teatro diverso da quello siriano, ma con una valenza strategica simile e forse superiore: la Libia. Qui, almeno per ora, non si sono manifestati interessi di soggetti forti come la Russia e ci sono tutte le condizioni per le tradizionali guerra asimmetriche prodotte dagli interventi militari delle potenze occidentali contro nemici assai più deboli. Non solo. Una guerra in Libia può diventare l’ennesima polpetta avvelenata che gli Usa gettano sul piatto dei loro partner/competitori europei, nel  loro “cortile di casa” , sui loro problemi di approvvigionamento energetico, nel loro mare – il Mediterraneo – diventato la via di fuga per milioni di profughi economici e di guerra che si riversano in Europa.

Nel rapporto tra costo e benefici, un intervento militare in Libia sarebbe vantaggioso per i lontani Stati Uniti e disastroso per i limitrofi stati europei, Italia soprattutto. Non solo. Intervenendo in Libia, gli Usa dimostrerebbero formalmente la loro “determinazione” a combattere il terrorismo dell’Isis e costringerebbero, ancora una volta, le potenze europee ad accodarsi in modo subalterno per non rimanere fuori dalla spartizione e dai giochi che si aprirebbero una volta diradato il fumo dei bombardamenti. Una umiliazione per le ambizioni di indipendenza degli stati dell’Unione Europea sul terreno della politica estera e militare coordinata.  L’intervento militare in Libia, secondo l’analista Arturo Varvelli dell’Ispi (Istituto di Studi Politica Internazionale)  avvierebbe così “una pericolosa spirale che spinge le potenze europee ad una rincorsa dell’azione militare per dimostrare di non rimanere passivi e che innesca dinamiche competitive intra-europee che non sembrano un buon viatico a qualsiasi razionale analisi e decisione”.

Il confronto/scontro tra le varie posizioni negli Stati Uniti

Ma come si vanno delineando negli ambienti di potere statunitensi  le decisioni su questa tentazione? Secondo America 24, alcuni dei massimi consiglieri sulla sicurezza nazionale Usa stanno spingendo il presidente Obama ad aprire un fronte militare contro l’Isis anche in Libia. E’ stato il New York Times a rivelare le spinte diverse e contraddittorie che si vanno confrontando per definire una sintesi comune sull’intervento in Libia. Sul piano formale il Nyt  denuncia come “i piani in stato avanzato sono stati messi a punto senza passare attraverso un dibattito del Congresso”, mentre su un altro dato decisivo – la legittimità dell’intervento militare – negli Usa non si accenna affatto ad “una copertura dell’Onu o della Ue”.  Insomma se si farà sarà un intervento deciso unilateralmente dalle potenze che decideranno di farlo.

In controtendenza rispetto ai “falchi” che spingono per l’intervento, è Robert Danin, esperto di affari mediorientali del Council of Foreign Relations, secondo cui “gli americani hanno pochissima voglia di farsi coinvolgere in un altro conflitto tra Medio Oriente e Nord Africa”: Secondo Danin, Obama e gli Usa preferiscono la strategia del “from behind”, cioè stare dietro ma lasciare agli europei la patata bollente della Libia (intervista sul Corriere della Sera dell’8 febbraio).

Ma se il Segretario alla Difesa Usa,, Ashton Carter, parla ancora genericamente di “una risposta flessibile e agile”,  il generale del Pentagono, Josph Dunford, afferma di aver concordato con il suo omologo francese una “azione militare decisiva contro l’Isis in Libia”. E’ poi il quotidiano britannico The Guardian del 27 gennaio a riferire della ammissione del ministro degli esteri di Londra, Robin Cook, sul fatto che le forze speciali inglesi e statunitensi stanno già agendo in Libia, non solo sul piano dell’intelligence, ma anche con omicidi mirati di esponenti del’Isis. Cosa ci fanno le forze speciali in Libia ma anche nei paesi limitrofi? “Stanno cercando di ottenere un quadro più chiaro di quello che sta succedendo lì”, ha ammesso Cook; “hanno preso contatto con persone sul terreno per avere un senso migliore della minaccia e delle condizioni di sicurezza”.

Incombe poi un altro problema formale: servirebbe una richiesta di intervento da parte di un governo libico rappresentativo. Ma, come noto, il governo di unità nazionale tra quelli di Tobruk e quelli di Tripoli stenta a diventare realtà, soprattutto perché il vero ostacolo alla definizione della compagine governativa si sta dimostrando “l’uomo forte” di Tobruk, il gen. Haftar, longa manu dell’Egitto e benvisto dagli Usa. Ma anche nel superamento di  questo problema di legittimità, il generale Jospeh Dunford, alto esponente del Pentagono, è stato più che esplicito: “Voglio essere chiaro, ci saranno truppe sul terreno, anche se è una questione strategica verificare se le forze locali saranno in grado di gestire le cose da soli o dovremo sostituirli”. Le ultime tre parole indicano piuttosto chiaramente che l’invito a intervenire da parte di una autorità libica potrebbe essere l’ultima foglia di fico pronta a volare via appena si sarà di intervenire comunque, anche “sostituendo” con truppe occidentali e/o egiziane, le forze locali libiche.

Costi, benefici, rischi dell’intervento militare in Libia

Infine sono in molti a sottolineare i rischi di un intervento militare occidentale che potrebbe unificare contro di sé quello che non è riuscito a unire fino ad oggi. “Un intervento armato internazionale generico e non risolutivo rischia di mobilitare nel jihad anche forze islamiche come i Salafiti e i Fratelli Musulmani della Tripolitania oltre i qaedisti di Ansar lo-Sharia”, segnala l’esperto Gianandrea Gaiani (Analisi Difesa, 27 gennaio). Su questo scenario converge anche Varvelli (Ispi) sottolineando come l’intervento armato straniero finirebbe per rendere irrilevante o peggio “fantoccio” dell’Occidente un eventuale governo libico che lo richiedesse.  Insomma il problema non sarebbero più solo i miliziani dell’Isis ma un vasto arco di milizie islamiche oggi divise tra loro.

Tripoli dunque vale una nuova guerra? La maledizione della Libia continua ad essere quella di avere i giacimenti di petrolio assai vicini alla superfice e di una qualità che facilita i processi di raffinazione. Insomma costi di estrazione e lavorazione più bassi di altre aree. In una fase di crisi economica mondiale e con il crollo dei prezzi petroliferi che rendono diseconomici costi di estrazione superiori o troppo poco inferiori a quelli di vendita, la Libia continua ad essere una preda ambìta. E poi la Libia sta dentro il cortile di casa dell’Unione Europea, affacciata sul Mediterraneo, a cavallo con l’Africa Centrale.

Per gli USA scatenare una nuova fase di instabilità e guerra in mezzo ai piedi dei suoi sempre più riottosi ex partner europei, magari trarne vantaggio sul piano delle concessioni petrolifere e addirittura avere la possibilità di installare una grande base militare per l’Africom sulla sponda sud del Mediterraneo (operazione a suo tempo fallita con l’Algeria), pone il rapporto costo-benefici su un piano esattamente contrapposto a quello delle potenze europee, Italia in primis, a meno che Renzi non sia facendo l’ascaro per Washington piuttosto che per Berlino. 

La Russia, a differenza della Siria, questa volta sarebbe tagliata fuori. Infine, ma non certo per importanza, ci sono i popoli arabi che si vedrebbero ancora una volta oggetto di una nuova, pura e semplice aggressione coloniale. E qui la musica potrebbe cambiare trasformando la Libia in quel “pantano” che gli esperti strategici di Washington, Parigi, Londra e Roma temono e vorrebbero evitare senza sapere ancora come farlo.

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1 Commento


  • mauro

    Il ministro degli esteri inglese Robin Cook è morto il 6 agosto del 2005. Forse parlavate del portavoce del Pentagono tale Peter Cook di cui si nel Guardian del 27 gennaio 2016:
    “Un piccolo gruppo di forze speciali americane ha preso contatto con miliziani libici semplicemente per avere un’idea di chi sono i giocatori.”
    http://www.theguardian.com/world/2016/jan/27/us-considering-fresh-military-action-in-libya-over-isis-threat

    Perché non mettete i link delle fonti? Non sarebbe più semplice per tutti? La reperibilità e la credibilità delle fonti fa la differenza. Ho amici che non leggono più siti che non mettono link alle fonti…

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