E’ trascorso un anno e un giorno dagli accordi di Minsk-2 (il primo incontro c’era stato nell’agosto 2014) per il cessate il fuoco nel Donbass, sottoscritti il 12 febbraio 2015 dai presidenti Putin, Hollande e Porošenko e dalla cancelliera Merkel, con la mediazione del bielorusso Lukašenko. In quest’anno trascorso, si è parlato e si è scritto meno del conflitto; ma non per questo esso è davvero cessato. La popolazione civile del sudest ucraino continua ad essere quotidianamente bersagliata dalle artiglierie e dai mortai delle truppe di Kiev e dei battaglioni neonazisti; continuano epurazioni e sparizioni di civili, presi in ostaggio o brutalmente assassinati; nella cosiddetta zona cuscinetto, che dovrebbe separare le linee ucraine da quelle delle milizie, si arrestano i civili che manifestano dissenso dalle posizioni ucraine.
E’ vero che gli scontri diretti tra milizie popolari e truppe ucraine sono di molto diminuiti, grazie alla linea di demarcazione tra le due forze, fissata proprio un anno fa a Minsk; ma il pericolo del riaccendersi del conflitto da un giorno all’altro non è stato scongiurato. Kiev non ha adempiuto ad alcuno degli impegni sottoscritti a Minsk: primi tra tutti un reale cessate il fuoco; ritiro delle artiglierie a 100 km dalla linea di contatto; amnistia per le milizie popolari; liberazione di tutti i prigionieri militari e degli ostaggi civili; ritiro di ogni combattente straniero; riforma costituzionale in Ucraina; autonomia linguistica regionale; elezioni locali e autonomia amministrativa per il Donbass.
Nei giorni scorsi, il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov aveva detto che a Kiev non c’è la volontà politica di giungere a una soluzione della crisi ucraina. “La crisi può essere superata”, secondo Lavrov, “solo con mezzi pacifici, con l’attuazione incondizionata degli accordi di Minsk. Condizione del successo: la soluzione delle questioni chiave nell’ambito di un dialogo diretto tra Kiev e il Donbass”; aveva detto Lavrov, invitando Parigi e Berlino a far pressione su Kiev per il “rigoroso rispetto degli obblighi di Minsk”. Anche se, evidentemente, lo stesso Lavrov sa che l’unica “pressione” efficace dovrà venire da Washington e solo dopo un definitivo chiarimento dei rapporti di forza tra USA e UE.
Ieri Vladislav Dejnego, rappresentante della Repubblica popolare di Lugansk ai colloqui di Minsk – che, dopo il vertice presidenziale del febbraio 2015, si sono tenuti a cadenza regolare, pur senza risultati tangibili – ha detto che l’assenza di progressi nell’anno trascorso dalla firma del 12 febbraio 2015, dovuta al “rifiuto categorico di Kiev di adempiere le misure concordate”, porta al congelamento del conflitto e diverse varianti sono possibili. Una di queste sarebbe quella di “trovare il metodo per influire sull’Ucraina affinché adempia gli impegni”, ha detto Dejnego. Al contempo, il vice comandante delle milizie della LNR Igor Jaščenko ha affermato che l’alternativa più reale per le Repubbliche popolari sarebbe l’integrazione con la Russia. D’altronde, Dejnego ha dichiarato che Minsk costituisce “l’unica piattaforma per cercare una soluzione al conflitto e su cui instaurare il dialogo; l’alternativa a Minsk”, ha detto, “che nessuno si augura, sono Ilovajsk e Debaltsevo”, con riferimento a due delle più sanguinose battaglie del 2014 e 2015, costate perdite sanguinose alle truppe di Kiev.
Ma questo sembra essere proprio ciò che cerca Kiev, quantomeno secondo le dichiarazioni del presidente della Repubblica popolare di Donetsk, Aleksandr Zakharčenko, che ha parlato ieri di almeno 500 carri armati e 90mila uomini delle forze ucraine schierati a ridosso della DNR. Secondo Zakharčenko, la guerra appare purtroppo l’unica alternativa voluta da Kiev. In base alle ricognizioni degli esploratori militari della LNR, l’Ucraina avrebbe completato la terza linea difensiva del piano “Muraglia”, il famigerato “vallo europeo” con cui Kiev dovrebbe difendere l’Europa dalla “minaccia russa” e per la cui costruzione, conseguentemente, il premier Arsenij Jatsenjuk continua a chiedere fondi europei. Igor Jaščenko ha rivelato che l’insieme della “Muraglia” – 270 punti fortificati, trincee, rifugi per i mezzi blindati, mortai, sistemi razzo – consta di una prima linea difensiva, affidata all’esercito e di altre due controllate da reparti della guardia nazionale e del Ministero degli interni ucraino.
Nel frattempo i “bravi” di Pravij Sektor, parzialmente disoccupati sul fronte del Donbass, spalleggiati dai loro compari della Karpatskaya Seč (castrum carpatico), si sono dati a bloccare gli autotreni commerciali russi in transito verso le regioni della Transcarpazia e della Volynija (la prima confinante con Slovacchia, Ungheria e Romania; la seconda con Polonia e Bielorussia) e, quindi, verso l’Europa centrale. La rotta della Transcarpazia è divenuta quasi obbligatoria per gli autotrasportatori russi dopo che, secondo le notizie di RIA Novosti, la Polonia aveva vietato il transito sul proprio territorio. Il blocco dalla parte ucraina sta creando problemi anche in Bielorussia, con oltre 100 mezzi provenienti dalla Lituania che non possono varcare la frontiera. Nelle intenzioni degli squadristi ucraini, riconvertiti in depositari della purezza cosacca, il blocco del transito dei TIR russi è solo l’inizio di un’azione più vasta, tesa a interrompere completamente ogni commercio con la Russia e smantellare ogni impresa russa dal territorio ucraino.
D’altronde, questa non è che la facciata materiale di ciò che, a livello “spirituale”, viene affidato “all’alta politica”: dopo la “legge sulla decomunistizzazione”, con il divieto di ogni simbologia e toponomastica che ricordi il trascorso sovietico, è stato presentato ieri l’altro alla Rada un progetto di legge per l’annullamento degli accordi tra Russia e Ucraina sui Centri culturali perché, a detta degli estensori del disegno legislativo, “le attività dei Centri informativo-culturali russi in Ucraina costituiscono una minaccia alla sicurezza nazionale”, dato che Mosca utilizzerebbe la collaborazione culturale “per destabilizzare la situazione politica in Ucraina”. Nei giorni scorsi Kiev aveva denunciato anche i legami di gemellaggio tra alcune città dell’Ucraina e i corrispondenti capoluoghi russi. Ieri invece il Consiglio nazionale ha vietato la trasmissione sul territorio ucraino di 15 canali tv russi.
Ovviamente, non tutte le pallottole sparate da Kiev prendono la strada dei confini orientali. Alcune – e non sempre esplose col silenziatore – hanno gittata minore. E’ di ieri la notizia rilanciata da RIA Novosti, secondo cui il “premier-stringer” Jatsenjuk ha consigliato al presidente Porošenko di mordersi la lingua. Il riferimento sarebbe alle recenti dichiarazioni del presidente, secondo cui i giorni del gabinetto Jatsenjuk sono contati. Al contrario, il premier ritiene che la collaborazione tra i blocchi parlamentari che fanno capo a loro due (“Blocco Petro Porošenko” e “Fronte popolare”) consentirebbe di adottare “le misure necessarie” al paese: pur che si tacciano i giudizi personali. La faccenda ha assunto un aspetto farsesco con il tweet pubblicato da Jatsenjuk – “Io sarò partner del presidente, se anche il mio partner presidente vorrà vedere il premier come partner” – che avrebbe fatto invidia al Totò nostrano. La perla linguistica avrebbe dovuto risolvere, a distanza di pochi giorni, il rebus su cosa Jatsenjuk medesimo intendesse allorché ha criptato che l’Ucraina ha “tutte le chances per diventare leader in Europa, dato che possiede il potenziale più importante: l’intelletto”!
Peccato che, oltre a vantare un’intelligenza superiore, questo sia anche il paese che oggi, come notava Grigori Ignatov su Žurnalistskaja Pravda, sta oggi accumulando scheletri. Non solo dei morti bruciati di Odessa, di cui è proibito parlare. Non solo del Donbass distrutto dalle artiglierie, su cui o cade il silenzio, oppure si dice che “l’esercito ucraino non bombarda i civili”, quasi a dire che “i separatisti stessi si autobombardano”! E la popolazione ucraina “finge di crederci”, diceva ancora Ignatov, paragonando l’attuale situazione intellettuale e sociale ucraina a quella della Germania nazista, dove “le prime vittime dei nazisti furono i tedeschi stessi”: con la differenza che, 80 anni fa, al consenso consapevole o inconsapevole della società ai delitti hitleriani, facevano riscontro intellettuali “coscienza della nazione”. Oggi, secondo Ignatev, mancano in Ucraina “i Brecht, i Remarque, i Mann e i tantissimi tedeschi onesti che tentino di opporsi a questo vile consenso”. Oggi, in Ucraina, i comunisti sono fuori legge, bastonati, uccisi; i semplici cittadini affamati dalle imposizioni del FMI; nelle fiaccolate notturne “goebbelsiane” si celebrano gli “eroi” SS di UNO-UPA di Bandera e Šukevič. Ma i media ucraini preferiscono parlare dell’ennesimo litigio tra Saakašvili e Kolomojskij e si assiste alle flebili critiche del potere a Pravij Sektor: per le sue azioni, non certo per l’ideologia nazista che le ispira. Si tace sul battaglione Azov, che ha scandalizzato (almeno a parole) lo stesso Congresso USA. Non è da meno la cosiddetta intellighenzia, continua Ignatev, scioltasi nell’estasi patriottica e che chiede di proibire ogni produzione intellettuale dalla Russia. Si è creato un “complotto del silenzio” collettivo attorno ai “temi scomodi”. Come per la Germania nazista, sembra voler dire Igntaev, per l’odierna Ucraina appare quasi inevitabile una “giusta punizione storica”.
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