Mentre il primo ministro francese Manuel Valls avverte i cittadini di Parigi e delle altre capitali europee che è il caso di aspettarsi presto nuovi terribili attentati dello Stato Islamico, le maggiori preoccupazioni di numerose cancellerie occidentali e non sembrano rivolte ai successi che la guerra contro l’Isis e altre organizzazioni jihadiste e islamiste radicali sta inanellando in Medio Oriente e soprattutto in Siria.
Nel paese, infatti, l’offensiva scatenata nei mesi scorsi grazie alla massiccia copertura aerea russa da parte dall’alleanza formata dall’esercito di Damasco, dalle milizie volontarie, da quelle iraniane e libanesi, parallelamente a quella dei curdi, sta portando a una rapida riconquista dei territori controllati finora da Daesh, dal Fronte al Nusra (cioè da Al Qaeda in Siria) e dai suoi numerosi alleati. Sono sempre di più le località liberate dall’asfissiante occupazione jihadista, anche nel vitale settore di Aleppo dove l’offensiva lealista sta portando alla liberazione di villaggi e quartieri della città reduci da tre anni e mezzo di assedio.
I successi contro Daesh e soci dovrebbero entusiasmare quei governi che da mesi, o in alcuni casi da anni, hanno dichiarato lo Stato Islamico ‘il nemico numero uno’ imbarcandosi in una ambigua e spesso inefficace campagna militare in Medio Oriente che, come detto, non ha cominciato a collezionare progressi fino al massiccio intervento dell’aviazione militare russa e al conseguente contrattacco delle truppe dell’asse sciita e dei curdi siriani.
E invece sembra accadere esattamente il contrario: sono sempre più numerosi i governi in allarme per l’evoluzione indesiderata della guerra in Siria, e in molti casi, come d’altronde era stato fino a pochi mesi fa, Daesh e sopratttutto Al Qaeda sembrano essere stati di nuovo derubricati a ‘male minore’ rispetto ad un regime siriano nei confronti del quale i toni si alzano e si drammatizzano.
La situazione attuale potrebbe, in fondo, anche andare a genio sia all’Unione Europea che agli Stati Uniti: una Siria e un Iraq divisi in diverse aree con i rispettivi governi non in grado di gestire per intero i loro territori; uno Stato Islamico ridotto e indebolito ma non cancellato, a disposizione di eventuali usi futuri da parte degli apprendisti stregoni dell’imperialismo. Insomma un Medio Oriente scomposto, destabilizzato, con diversi soggetti e attori da continuare a mettere gli uni contro gli altri per mantenere saldo il controllo dell’area.
Ma i continui successi dell’asse sciita, supportato da un intervento militare russo fino a qualche mese fa impensabile, hanno tolto il sonno alle potenze locali: né la Turchia né le petromonarchie possono accettare la seppur relativa disfatta delle loro pedine nell’area che darebbe fiato all’Iran e ai suoi alleati capovolgendo una tendenza finora favorevole ad uno spregiudicato asse sunnita.
Anche perché il rischio è che, in poche settimane, le sconfitte locali di Daesh, di Al Nusra, dell’Esercito dell’Islam e di altre sigle del jihadismo di fede wahabita e salafita possano trasformarsi in una disfatta generale delle forze combattente ‘ribelli’. Se Aleppo dovesse essere riconquistata interamente dai lealisti – che mirano a sigillare del tutto la frontiera con la Turchia per tagliare i rifornimenti ai cosiddetti ribelli – consistenti gruppi armati jihadisti potrebbero scegliere la via della ritirata e della fuga, innescando una reazione a catena in tutto il paese. Per le petromonarchie e gli islamo-nazionalisti turchi si tratterebbe di uno smacco storico. Ed anche per le cancellerie occidentali una vittoria netta dei lealisti a Damasco – con il conseguente rafforzamento del governo iracheno sull’altro fronte della lotta contro Daesh – e in ultima istanza dell’asse Russia-Iran rappresenterebbe uno scenario altamente indesiderabile.
E’ in questo quadro che l’accordo di Monaco – annunciato nella notte di giovedì dal segretario di Stato Usa Kerry e dal ministro degli Esteri russo Lavrov a nome dei 17 Paesi che compongono l’International Syria Support Group – non può che fallire, o quantomeno rappresentare una copertura di facciata ad uno scontro sul terreno che non può che farsi più cruento. Ognuno degli attori in campo sa che prima o poi ci si dovrà sedere ad un tavolo negoziale, ma proprio per questo ogni parte è spinta ad ottenere il più possibile, sul campo, prima che un cessate il fuoco cristallizzi la situazione data tarpando così le ali alle aspirazioni dei vari contendenti.
I media internazionali puntano il dito contro il presidente siriano Assad che in una intervista ha affermato di voler riconquistare tutto il paese; qualunque cosa si possa pensare del governo della Siria, è ovvio che Damasco punti a riprendersi le aree attualmente controllate dai gruppi armati jihadisti. Tanto più che tutti gli altri attori – locali, regionali e internazionali – di una guerra civile presto diventata guerra per procura tra potenze non stanno certo deponendo l’ascia di guerra ma anzi sembrano affilare i propri coltelli. Turchia e Arabia Saudita hanno più volte annunciato un imminente intervento militare di terra, naturalmente “per contribuire alla lotta contro lo Stato Islamico”. In realtà truppe turche sono già presenti sia nel nord della Siria – “per gestire il flusso di profughi” – che dell’Iraq, e Ankara manovra sia i curdi iracheni che le milizie turcomanne siriane, oltre ai gruppi fondamentalisti dell’opposizione che fanno riferimento al regime turco dal quale ricevono fondi e armi. Per non parlare del fatto che la maggior parte delle forze militari ‘ribelli’ – non solo Daesh e Al Nusra, ma anche quelle protette dalle petromonarchie – ha sconfessato l’accordo di Monaco annunciando che non vi si atterrà.
Una situazione complicata per Washington e Bruxelles, che puntano a stabilizzare il caos fin qui prodotto senza permettere l’affermazione dell’asse sciita ma neanche quello di una cordata sunnita che, formalmente alleata dell’occidente, persegue in maniera sempre più smaccata i propri interessi economici, geopolitici e militari anche in contrasto con Ue e Usa.
Se Aleppo dovesse cadere e i lealisti riusciranno a chiudere “l’autostrada della jihad” che da anni permette ai fondamentalisti di rifornirsi di combattenti, soldi e armi, le potenze che patrocinano l’insorgenza armata sunnita in Siria ed Iraq potrebbero sentirsi obbligate ad entrare in scena in maniera massiccia, obbligando gli avversari dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad a reagire. Sarebbe lo scontro diretto, più volte rimandato e finora condotto ‘per interposta persona’, tra Iran e Arabia Saudita. A quel punto una guerra sanguinosa e terribile ma tutto sommato ‘locale’ potrebbe deflagrare in un conflitto di dimensioni assai più ampie coinvolgendo quantomeno i paesi confinanti.
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