C’è un magnate con le mani in pasta un po’ ovunque che entra in politica e comincia a fare sfracelli. A chi state pensando?
In verità Donald Trump e Silvio Berlusconi sono personaggi diversi, anche se prima o poi qualcuno dovrà decidersi a fare un discorso finalmente serio sul tramonto della ‘politique politicienne’ e su questi personaggi che prima vengono presi in giro, poi cominciano a fare paura e poi combinano un casino dal quale ci vogliono almeno vent’anni per uscirne. Comunque, Trump – New York City, classe 1946 – in queste settimane sta stravincendo le primarie del Partito Repubblicano statunitense e a questo punto è facile ipotizzare che alla fine la nomination sarà sua. L’establisment del Gop è basito: la paura è che un personaggio tanto discutibile finirà in polpette davanti a un Partito Democratico che, comunque la si voglia vedere, rimane un muro abbastanza solido.
Si vedrà: fare previsioni del genere, a questo punto, è un azzardo grosso, anche perché fino a un mese fa nessuno avrebbe puntato una lira (anzi, un dollaro) sulla vittoria di Trump alle primarie. «È un bluff, è destinato a sgonfiarsi, si ritirerà a breve», dicevano più o meno tutti gli osservatori. S’è visto.
La storia di Donald e dei suoi capelli biondi, però, merita di essere raccontata: uno spaccato di american way of life, tra Homer Simpson e Ronald Reagan. Le biografie dicono che la carriera di Trump sia cominciata nei ruggenti anni ’60, a New York City, con una serie di operazioni immobiliari a Brooklyn, Queens e Staten Island. Da lì la scalata nel mondo immobiliare, tra riqualificazioni e costruzioni, nella città degli alti grattacieli. Nel 2015 il Washington Post ha stimato che il suo patrimonio ammonterebbe a circa nove miliardi di dollari. Nel mezzo, tante stramberie: passaggi nel mondo del wrestling, uno show televisivo (The Apprentice, una specie di gara per aspiranti squali degli affari. In Italia pure è stata fatta una cosa del genere, con Flavio Briatore impegnato a torturare giovani disposti a sputtanarsi per ottenere soldi e fama), qualche apparizione al cinema, tre matrimoni, cinque figli, un blog piuttosto visitato (memorabile un suo post del 2009 in difesa di Amanda Knox, appena condannata a 26 anni di reclusione per l’omcidio di Meredith Kercher a Perugia). Famosa anche la sua polemica bella grossa sul certificato di nascita di Obama. Trump sosteneva che il presidente fosse nato in Kenya e non a Honolulu e che quindi fosse ‘abusivo’. Donald piantò un casino, Barack non si è mai degnato di rispondergli. Con la politica Trump ha cominciato a immischiarsi prima dell’11 settembre: nel 2000 sembrava dovesse candidarsi per il partito della Riforma (un’enclave di miliardari alla ricerca di una terza via incredibilmente turboliberista tra democratici e repubblicani), ma non se ne fece niente. Nel 2008 l’appoggio a John McCain, nel 2010 l’idea di candidarsi per i repubblicani con un programma a base di tagli alle tasse, nessun controllo sulle armi, stop agli aiuti internazionali, abolizione della Obamacare e vaneggiamenti sulla guerra alla “Cina comunista”. Anche qui l’idea tramontò in breve perché Trump non si riteneva «pronto a lasciare il settore privato», e i sondaggi dicevano che comunque 71 americani su 100 lo ritenevano inadeguato come presidente. Il 16 giugno 2015 però arriva la volta buona: dalla Trump Tower di New York, introdotto dalla figlia Ivanka, Donald si lancia nell’iperuranio delle presidenziali. Contro Obama, contro il terrorismo islamico, contro la Cina, contro gli stessi repubblicani, a suo dire incapaci di qualsiasi opposizione. «Make America Great Again», il suo motto. L’establishment repubblicano reagisce con un sorriso di scherno, con lui si schierano alcuni personaggi bizzarri, come Sarah Palin, l’ex governatrice dell’Alaska, che presenta il biondocrinito miliardario come l’uomo giusto per «prendere a calci in culo l’Isis». Adesso l’establishment non ride più, l’eccentrico miliardario con la parrucca li sta letteralmente suonando. Amen. Il resto è storia recente: crescita nei sondaggi, dominio nelle prime uscite delle primarie repubblicane. Prestazioni così debordanti che persino Jeb, l’ultimo erede della dinastia Bush, ha dovuto recentemente rinunciare all’idea di candidarsi. Adesso la strada è praticamente in discesa: Donald vede la candidatura alla presidenza per novembre e, c’è da giurarci, le proverà tutte per vincere anche lì. I soldi, l’unica cosa davvero necessaria per poter almeno pensare di avere una speranza di farcela, d’altra parte non gli mancano. Per ora i democratici non lo prendono troppo sul serio e sono convinti di avere la vittoria in pugno. Per ora. Una massima attribuita a Palmiro Togliatti recita più o meno così: via i pagliacci dal campo di battaglia. Ma che succede se il campo di battaglia è un circo?
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Vincenzo
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