di Enrico Campofreda
E’ un Sisi paterno quello che ha incontrato al Cairo Mario Calabresi, direttore de La Repubblica, nelle vesti di ambasciatore più che di giornalista, tanto la sua intervista appare vuota, privata di tutte le domande, certamente imbarazzanti, ma necessarie per il mestiere di chi le fa, o dovrebbe farle, e per la posizione tenuta fino a questo momento dai vertici egiziani che dal generale dipendono. Una chiacchierata amichevole, un vero spot per il presunto buongoverno del presidente golpista in un Paese minacciato dal terrorismo. Tema senz’altro vero applicato al fondamentalismo qaedista e del Daesh che coinvolge tutto il Mediterraneo, nelle sponde meridionali e settentrionali, compreso il cuore d’Europa. Lo ricorda Sisi medesimo rispondendo a una delle domande. Però, viene da chiosare, se il terrorismo è nei Paesi da lui citati (Libia, Siria, Yemen, Iraq, Mali, Somalia, Nigeria) e in altri ancora, il quadro è assai più ampio e sminuisce l’idea del complotto antiegiziano.
Allora quel che cerca Al Sisi, grazie alla sponda d’una nostra grande testata nazionale con l’attuale direttore ancor più vicina a Palazzo Chigi, è catturare la benevolenza di un’opinione pubblica spinta dal caso Regeni verso interrogativi inquietanti. Su una vicenda sanguinosa ed efferata che amici del ricercatore e gli attivisti locali rimasti in libertà indicano come una dei cento e cento casi di sparizioni misteriose terminate con un omicidio. Taluni cadaveri si ritrovano, altri spariscono nel nulla. Succedeva con Mubarak e sta accadendo con Sisi con frequenza impressionante. Il generale intervistato rovescia i ruoli e pone lui una domanda (retorica): perché il corpo del giovane è stato fatto ritrovare nel giorno dell’incontro fra una delegazione italiana del Ministero dello sviluppo e i propri funzionari? Sposta l’attenzione dall’omicidio (preceduto da rapimento di giorni e torture) al ritrovamento del cadavere in simultanea con gli impegni economici fra i partner italiano ed egiziano.
L’interesse del presidente è rivolto non alla macabra scoperta dell’omicidio, e alle ricerche dello studioso che lo facevano straniero non gradito, bensì all’intralcio agli affari di Stato che il ritrovamento ha creato e alla successiva impasse. Sisi cerca, anche grazie ai buoni uffici di simili interviste, di ribadire l’amicizia col premier Renzi (“un amico e persona che non dimentica gli impegni”) e il business (“il lavoro con l’Eni è il simbolo delle nostre eccezionali relazioni. L’Italia è il primo partner Ue”). Certo un blocco della possibile partnership con L’Eni per lo sfruttamento del giacimento Zohr nei fondali mediterranei si competenza egiziana sarebbe l’ennesimo durissimo colpo alle finanze interne già provate dal crollo delle entrate turistiche svilite dagli attacchi terroristici (ricordiamo l’aereo russo esploso sul Sinai), perciò il generale fa appello alla sensibilità liberista di Renzi, intuisce che il governo italiano non spingerà per una rottura delle relazioni. Gli affari fanno comodo a tutti, diventano questione di Stato e accordo fra apparati degli Stati.
Basterà un Pignatone per opporgli il tema della “verità e giustizi per Giulio”? Roba accademica da Amnesty, non cruda real polik. L’altro asso che Sisi cala, nel suo intervento dalla pagine de La Repubblica, è questione egualmente grossa: il suo ruolo di castigamatti del terrorismo. Risolutore di faccende come l’Isis in casa propria e sul territorio confinante libico, i foreign fighter tunisini che assieme ai marocchini arricchiscono il reclutamento del Daesh. Reale o presunto il generale si spaccia per cane da guardia del modello (e degli interessi) occidentali nel Maghreb e Mashreq, un compare disponibile a ogni servizio. Parla di stabilità (bluffando perché dopo due anni al comando il suo Paese non lo è) e lancia uno spettro: “se uno su mille dei 60 milioni di giovani egiziani venisse reclutato dallo Stato Islamico, cosa accadrebbe al Mediterraneo e all’Europa?” Sessantamila jihadisti egiziani sono il fantasma agitato dal generale, che poi fa intendere, senza dirlo, chi sono gli sponsor del terrorismo (gli odiati-amati sauditi concorrenti regionali ed elargitori di petrodollari. E gli odiatissimi Fratelli Musulmani, iniziati a uccidere già dal 14 agosto 2013).
Ma non finisce qui. Altri due passi del “proclama Al Sisi” fanno accapponar la pelle ai sinceri democratici che vivono in Italia ed Egitto. Il presidente pareggia il conto con l’uccisione di Regeni agitando la faccenda di Adel Moawad Heikal, cittadino egiziano scomparso da cinque mesi dall’Italia. Di lui non si sa più nulla. Sisi non l’afferma ma chiederebbe notizie del concittadino, alla politica e alla magistratura italiane. In tal modo evidenzia comportamenti speculari e fa intendere che in quanto alleati similitudini, fra noi e voi, ci sono. Il pensiero vola alla collaborazione su Abu Omar, l’imam egiziano rapito a Milano dai Servizi di Pollari e consegnato ai mukhabarat di Suleiman per gli interrogatori e le torture di rito, tutto su ordine della Cia. Un passato che ci lega e grazie al quale la “sicurezza” e “la lotta al terrorismo” c’imporrebbero di continuare. Infine il rito del buon padre, diffuso con la benedizione di Calabresi, tocca l’apice: “Mi rivolgo a voi (i genitori di Giulio, ndr) come padre prima che come presidente, comprendo la pena e il dolore che state provando, il mio cuore e le mie preghiere sono con voi”.
I Regeni non meritano quest’ipocrisia.
Domani La Repubblica riserva ai lettori e agli italiani una seconda scena.
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