“Notizie e commenti di alcuni organi di stampa” sulla preparazione di un piano golpista dell’esercito turco contro il presidente Recep Tayyip Erdogan sono “senza fondamento”. Così in un breve comunicato le Forze armate di Ankara hanno smentito le voci su un presunto progetto di golpe ispirato da settori militari legati al magnate e imam Fethullah Gulen, ex alleato e poi nemico giurato di Erdogan, che da giorni si rincorrevano proprio in concomitanza con la visita del presidente turco negli Stati Uniti. Nella nota, l’esercito ribadisce la sua “lealtà alla democrazia turca”, escludendo “concessioni a qualsiasi formazione illegale e/o movimento al di fuori della scala gerarchica” e promettendo querele contro i media che hanno diffuso la notizia del presunto piano golpista.
Il fatto che i comandi militari delle forze armate turche si siano spinti a smentire pubblicamente i rumors diffusi in particolare dalla stampa statunitense proprio nel momento in cui le relazioni tra Ankara e Washington sono ai minimi storici la dice lunga sulla debolezza e sull’isolamento del regime islamista. Non solo Obama non si è reso disponibile per un bilaterale con il leader turco – delegando il suo vice Biden – ma ha rifiutato anche di presenziare all’inaugurazione di una moschea finanziata e voluta dal regime neo-ottomano in cerca di consensi all’interno della comunità musulmana statunitense.
La nota dello Stato Maggiore di Ankara non cita esplicitamente i media incriminati, ma è facile risalire alla diffusa e influente rivista statunitense Newsweek – ripresa poi da molti altri media – che il 24 marzo scorso ha pubblicato un articolo dell’ex funzionario della Difesa statunitense, Michael Rubin, intitolato «Ci sarà un golpe in Turchia contro Erdogan?».
Più che una domanda quella di Rubin deve essere suonata alle orecchie di Erdogan e dei suoi come un suggerimento ai settori delle forze armate turche che vivono con fastidio e preoccupazione la deriva islamista del governo del paese e che temono che la crisi economica, politica e sociale provocata dalla spericolata politica del ‘sultano’ si ripercuota su tutto l’establishment indebolendo ulteriormente uno stato alle prese con la minaccia del jihadismo – che Ankara nonostante tutto continua a sostenere in chiave egemonica in Medio Oriente – e con la recrudescenza del conflitto con i curdi.
Da quando è salito al potere l’Akp di Erdogan ha perseguito una scientifica e capillare opera di depurazione delle forze armate turche da tutti gli elementi legati alla fazione nazionalista e laicista che ha governato il paese fino all’avvento, all’inizio degli anni Duemila, degli islamisti cosiddetti ‘moderati’. Il nuovo regime ha alternato il bastone – epurazioni, processi e condanne contro centinaia di generali e ufficiali accusati di golpismo e di tradimento, degradazioni – alla carota – promozioni, concessione ad alcuni settori militari di privilegi politici ed economici – per disinnescare il potenziale eversivo di un esercito che negli ultimi decenni è stato protagonista di ben 4 colpi di stato nel 1960, nel 1971, nel 1980 e nel 1997. L’ultimo – per quanto incruento – impedì l’ascesa al potere del partito islamista, che pure aveva vinto le elezioni, guidato da Erbakan, padrino politico di Erdogan.
Ma nonostante anni di epurazioni, nelle potenti forze armate turche – rinvigorite recentemente dalla nuova esplosione della guerra con il Pkk e dalla mobilitazione alla frontiera con la Siria – sono ancora forti i settori che fanno riferimento al vecchio regime kemalista e quelli che invece sono fedeli all’imam Gulen e alla sua confraternita/rete imprenditoriale Hizmet, il cui capo è da diciassette anni ‘esule’ in quegli Stati Uniti la cui stampa ‘evoca’ il golpe ad Ankara. Al di là dei diversi interessi rappresentati e della diversa ideologia di riferimento, sia i settori kemalisti sia quelli gulenisti sono di osservanza atlantista e si oppongono all’allontanamento di Ankara dalle priorità dettate dagli Stati Uniti, oltre che al rafforzamento del potere assoluto del presidente e del suo clan politico/affaristico.
E’ in questo quadro che si inserisce il colpo messo a segno ieri dalla guerriglia curda a Diyarbakir. Un’autobomba è stata lanciata nel pomeriggio contro un mezzo blindato delle forze speciali della polizia turca nei pressi del terminal dei bus della principale città del Kurdistan turco, uccidendo sette ufficiali e ferendone altri 13, insieme ad alcuni passanti. La gravità dell’attacco è maggiore perché realizzato in una città completamente militarizzata e sotto assedio ed in contemporanea con la visita di ben tre ministri del governo turco e alla vigilia dell’arrivo del primo ministro Ahmet Davutoglu.
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