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Obama in Vietnam sfida la Cina

Seduto su uno sgabellino basso di plastica, con davanti alcuni piattini di noodle e birra vietnamita per un conto totale di sei dollari, tra gli avventori del baretto di Hanoi stupiti dalla sua inattesa presenza, il presidente degli Stati uniti Barack Obama ha cenato ieri con il cuoco e scrittore statunitense Anthony Bourdain che ha immortalato la scena pubblicando un’istantanea sui suoi profili social invitando a nozze i media di mezzo mondo che naturalmente nelle ultime ore non fanno che parlare di quanto sia casual e easy l’inquilino della Casa Bianca (altro che Papa Francesco!).

Ma i media più seri si stanno invece occupando del quadro in cui si sta svolgendo la storica visita di un presidente degli Stati Uniti nel primo paese che, ormai molti decenni fa, inflisse una sonora e cocente sconfitta alla principale superpotenza mondiale del pianeta. Nelle stanze dei bottoni di Washington in molti ricordano ancora, e non certo con nostalgia o piacere, le immagini degli elicotteri che decollavano dal tetto di una palazzina utilizzata dalla Cia a Saigon, carichi di cittadini Usa, del personale diplomatico e di un consistente numero di spie e militari, oltre che di numerosi collaborazionisti locali, desiderosi di sfuggire all’avanzata finale dell’esercito popolare di liberazione.

Ma a Washington il ricordo della cocente sconfitta non impedisce di intravedere le opportunità che i cambiamenti imposti al Vietnam dalla nuova classe dirigente del ‘Partito Comunista’ può mettere a disposizione di una superpotenza sempre più debole e meno autorevole, in ricerca costante di strumenti e strategie per tenere testa ai propri avversari e per frenare l’ascesa dei suoi competitori.

E così il nemico di tanti anni fa oggi si riscopre ‘amico’ – seppur di circostanza – di una Washington che ha scelto come propria priorità in Asia l’accerchiamento militare, oltre che economico e politico, della sempre più ingombrante e incontenibile potenza cinese.

Con un gesto storico, gli Stati Uniti hanno deciso di revocare l’embargo sulle armi imposto al Vietnam nel 1984. Ad annunciarlo in conferenza stampa ad Hanoi, durante il primo dei tre giorni di visita nel paese, è stato lo stesso Barack Obama che si è prodigato in discorsi sulla fine della guerra fredda e la necessità di sviluppare relazioni amichevoli e fruttuose anche con i vecchi avversari.

Gli Stati Uniti – che in realtà avevano già allentato la proibizione nel 2014 – hanno giustificato la mossa affermando di aver rimosso l’embargo sulle armi al Vietnam in considerazione del netto miglioramento nel rispetto dei diritti umani da parte del governo del paese asiatico.

Ma è più che evidente che Washington cerca sponde per mettere in atto una ridislocazione del suo meccanismo militare che ha già coinvolto Filippine, Indonesia, Australia e altri paesi dell’area, negli ultimi anni rimpinzati di nuove basi aeree e navali e di postazioni radar statunitensi. Anche se Obama lo nega nei suoi interventi ufficiali, basta leggere la stampa statunitense per sapere che l’obiettivo di Washington è contrastare quella che, ovviamente, viene descritta come l’aggressiva e minacciosa espansione di Pechino nei mari dell’area dove da tempo sono in corso aspre dispute per il controllo del Mar Cinese Meridionale, dove passano ogni anno l’equivalente di 5000 miliardi di dollari in beni. Nel braccio di mare conteso, recentemente, Pechino ha occupato alcuni atolli ed ha cominciato a costruirvi delle infrastrutture, mentre la compagnia petrolifera statale cinese ha installato una piattaforma di trivellazione in un tratto rivendicato anche da Hanoi.

Obama, terzo presidente statunitense a visitare il Vietnam dalla fine della guerra (persa), ha spiegato che gli Stati Uniti avrebbero rimosso l’embargo “non in base alla Cina o ad altre considerazioni, ma in base al nostro desiderio di completare il lungo processo verso la normalizzazione con il Vietnam”. Ovviamente, per salvare la faccia di fronte ai settori dell’establishment e dell’opinione pubblica reazionaria interna, il presidente Usa, affiancato durante la conferenza stampa dal presidente vietnamita Tran Dai Guang, ha aggiunto che la rimozione dell’embargo non significa che sarà data ‘carta bianca’ alla vendita di armi al Vietnam – ottavo maggior acquirente al mondo di armi tra il 2011-2015 (comprate finora al 90% da Mosca), e quindi cliente assai appetibile per la famelica lobby USA – ma che Washington “esaminerà cosa sia appropriato e cosa no”, come del resto farebbe per ogni partner…

Mentre Human Rights Watch protesta perché Obama non avrebbe tenuto conto del trattamento brutale riservato dal governo vietnamita ai dissidenti, lo stato maggiore di Washington si frega le mani al pensiero di ottenere, in cambio della rimozione dell’embargo delle armi, la possibilità di far attraccare le proprie navi da guerra nel porto vietnamita di Cam Ranh, fino al 2002 egemonizzato dai vascelli da guerra russi, e dal quale 40 anni fa partivano invece i B-52 che scaricavano bombe e defolianti sui guerriglieri e sui civili. Su questo punto niente è ancora ufficiale, ma le voci di corridoio su un accordo in gestazione sono molto insistenti. E comunque gli americani hanno già ottenuto la disponibilità dei vietnamiti a consentire alle unità della Marina militare a stelle e strisce un approdo più facile e più frequente nei porti del paese. Per gli Stati Uniti sarebbe fondamentale poter utilizzare una base contigua al Mar Cinese Meridionale oltre a quelle che possiede nelle Filippine.

Questo mentre Obama ha annunciato ufficialmente nuovi accordi commerciali del valore di oltre 16 miliardi di dollari, che comprendono anche la vendita di 100 aerei della Boeing e di 135 motori di Pratt & Whitney a VietJet, una compagnia aerea di un paese la cui economia l’anno scorso è cresciuta quasi del 7% nonostante la forte competizione con il gigante cinese. Il Vietnam spera che l’adesione all’accordo di libero scambio denominato Tpp (Trans-Pacific Partnership) gli permetta di accedere ai mercati sia giapponesi che statunitensi, da inondare con prodotti tecnologici e articoli di abbigliamento.

L’ostacolo principale viene però dal fatto che Obama – che può ora vantare la terza normalizzazione andata a segno dopo Iran e Cuba – è ‘a scadenza’ e che il Congresso degli Stati Uniti non approverà l’accordo prima delle presidenziali di novembre, senza contare che sia il repubblicano Donald Trump sia i democratici Sanders e Clinton si sono detti contrari alla firma dell’intesa tra i 12 paesi che si affacciano sul Pacifico. Ma la sponda vietnamita è considerata necessaria dagli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca, e in molti giurano che le nette posizioni declamate finora dai candidati alla presidenza diventeranno assai più sfumate, soprattutto per chi vincerà la competizione. «L’accordo militare e commerciale col Vietnam è di grande importanza anche politica per gli Stati Uniti. Non è solo la cancellazione di un embargo sulle armi ormai anacronistico, visto che la Guerra Fredda è finita da decenni. Questo paese, fino a quarant’anni fa in guerra con l’America, ora vuole fortemente un aiuto americano per la sua difesa. E gli Stati Uniti forniranno equipaggiamenti importanti: una settimana fa i rappresentanti di tutti i principali gruppi dell’industria bellica Usa sono stati ad Hanoi per incontri col governo. E il Pentagono otterrà l’accesso alle basi militari costiere del paese» spiegava stamattina sulle colonne del Corriere della Sera Ian Bremmer, politologo statunitense a capo del think tank Eurasia.  
Per ora Pechino sembra reagire in maniera composta e poco preoccupata, contando sul fatto che il Vietnam è un partner privilegiato della Cina. “Il Vietnam non diventerà un altro alleato degli Stati Uniti come le Filippine”, scriveva alcuni giorni fa il Quotidiano del Popolo, organo del Partito Comunista Cinese. Ma ovviamente Pechino sta già mettendo a segno le sue contromosse, e la spregiudicatezza della classe dirigente vietnamita nel giocare su due tavoli si potrebbe rivelare un ulteriore elemento di instabilità in un quadrante del pianeta già sotto tensione.

 

Marco Santopadre

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