51.9 contro 48.1, con un margine di un milione di voti. Alla fine la maggioranza degli elettori che ieri si sono recati alle urne nell’attesissimo referendum sulla Brexit hanno scelto di abbandonare l’Unione Europea. Al voto, stando ai dati diffusi dalle autorità, sono andati circa il 72% degli aventi diritto. Una punta di partecipazione piuttosto alta – anche se non quell’improbabile 84% diffuso dai media ieri sera – che rappresenta un record rispetto ad un dato medio assai inferiore e che va considerato anche rispetto al fatto che in numerose zone dell’Inghilterra, soprattutto in quelle più schierate a favore del ‘leave’, ieri le operazioni elettorali sono state rese assai difficili dalle piogge torrenziali e dalle inondazioni.
Per l’ennesima volta, un popolo che ha ottenuto la possibilità di pronunciarsi su una vicenda tanto importante per le proprie condizioni di vita e per il proprio futuro ha votato contro l’Unione Europea. Era già accaduto in Grecia la scorsa estate, ma all’epoca l’establishment di Bruxelles decise di non tenere conto di quel risultato schiacciante e andò avanti come uno schiacciasassi lungo la strada della negazione della democrazia e dell’austerità, trovandosi di fronte un governo Tsipras che tradì il mandato popolare e chinò la testa sprofondando il paese in una stagione ancora più cupa delle precedenti.
Non sarà così per il voto di ieri in Gran Bretagna. Al di là di ciò che davvero accadrà nei prossimi mesi – la destra britannica pro-Brexit più che a una rottura totale con l’Ue è interessata a un aumento ulteriori dei privilegi già concessi in questi anni a Londra – è evidente ché né la classe politica inglese né tantomeno quella dell’Unione Europea potranno far finta di niente.
E mentre la sterlina e i mercati crollano e l’oro spicca un balzo sull’onda dell’inatteso – e rigettato – risultato, a Londra sembra stiano per cadere le prime teste.
Il primo ministro conservatore David Cameron ha annunciato stamattina le sue dimissioni per lasciare il posto ad un nuovo premier entro inizio ottobre. Ieri sera in una breve presa di posizione una consistente pattuglia di parlamentari conservatori favorevoli alla Brexit avevano comunque assicurato il loro appoggio a Cameron anche nel caso in cui le urne avessero sconfessato il capo del governo, ma evidentemente il leader dei Tories non poteva rimanere al suo posto.
“Il popolo britannico ha votato per lasciare l’Unione europea e la sua volontà va rispettata” ha fatto sapere Cameron stamattina. Il premier sconfitto ha promesso che tenterà di “tenere la rotta della nave” nei prossimi mesi, ma ha aggiunto che serve un nuovo leader a ottobre. “Non penso sarebbe giusto per me essere il capitano che guida il Paese alla sua prossima destinazione” ha detto fuori dalla residenza ufficiale di Downing Street. A sostituirlo potrebbe essere l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, capofila della campagna per il “Leave” da destra (la campagna per la Brexit da sinistra, la Lexit, ha preferito non mischiarsi con i Tories e l’Ukip di Farage).
Ma è lo stesso leader del fronte pro-Brexit del Partito Conservatore a lanciare una cima al traballante Cameron. “Non c’è fretta” di portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea ha detto stamattina Boris Johnson dicendosi d’accordo sulla applicazione non immediata dell’articolo 50 per l’uscita del Paese dall’Ue.
L’Ue “non va più bene per questo Paese”, ha detto ancora Johnson, secondo cui i giovani possono guardare avanti verso un “futuro prosperoso” riprendendo il controllo dall’Ue. “Possiamo soprattutto trovare di nuovo la nostra voce nel mondo”, ha evidenziato, “Potente, liberale, umana, una straordinaria forza verso il bene. Ieri la popolazione britannica ha preso posizione per la democrazia. La Gran Bretagna continuerà a essere una grande potenza europea”.
L’establishment comunitario ha definito la decisione referendaria inglese di uscire dall’Unione “politicamente drammatica”. “E’ un giorno triste per il Regno unito e l’Europa” ha detto il capo della diplomazia tedesca Frank-Walter Steinmeier su Twitter. Il Fondo monetario internazionale stima che nel caso peggiore l’economia britannica possa andare in recessione l’anno prossimo e il Pil possa essere più basso del 5,9% rispetto alle previsioni precedenti nel 2019, mentre la disoccupazione potrebbe risalire oltre il sei per cento. Migliaia di posti di lavori nella City di Londra potrebbero essere trasferiti a Parigi o Francoforte, hanno avvertito i colossi della finanza mondiale. Ma secondo i sostenitori della Brexit le imprese si adatteranno in fretta e l’economia flessibile e dinamica della Gran Bretagna sarà sostenuta da nuovi partner economici.
Cercando di assorbire il contraccolpo e in attesa di capire se l’eliminazione della contraddizione rappresentata dalla Gran Bretagna non possa al contrario rafforzare il progetto di unificazione europea, nel corso di un incontro con i giornalisti il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha assicurato che no, la Brexit non rappresenta la fine dell’Unione Europea.
“Non siamo in grado di prevedere tutte le conseguenze politiche. Il momento è storico. Non è però il momento di avere reazioni isteriche (…). A nome dei 27 voglio rassicurare che il nostro obiettivo è di mantenere la nostra unità. L’Unione è il quadro del nostro futuro in comune” ha detto invece l’ex premier polacco e attuale presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Che poi ha aggiunto: La legge comunitaria continuerà (nel corso dei negoziati di divorzio, ndr) a essere applicata nel Regno Unito. Voglio precisare che l’applicazione della legge prevede diritti e obblighi”.
Se dall’establishment fioccano le rassicurazioni, il risultato britannico fomenta tutti i leader delle formazioni politiche cosiddette euroscettiche, dalla Danimarca all’Olanda, dalla Francia ai paesi scandinavi, senza dimenticare Alternativa per la Germania, nata da una scissione di destra della Cdu di Angela Merkel e critica nei confronti della “troppo tollerante” Unione Europea quanto coloro che vorrebbero uscirne proprio denunciando lo strapotere di Berlino. Si tratta per lo più di forze nazionaliste, di destra, xenofobe e protezioniste, vista l’incapacità da parte delle forze di sinistra maggioritarie del continente – tranne poche eccezioni – di indicare la strada di una Exit da posizioni e prospettive anticapitaliste e internazionaliste.
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