In attesa di recensire un vecchio testo di MAXIME RODINSON “Islam e capitalismo”, pubblichiamo questo articolo diASPENIA (rivista dell’Aspen Institute) su un tema piuttosto sottaciuto: la FINANZA ISLAMICA. Sono mesi che si parla di ISIS, guerra, terrorismo e speculazione economica, e i governi hanno come interesse quello di scaricare sui subalterni i costi della propria esistenza e degli interessi che coprono con diligenza. Una delle ultime “giustificazioni” ideologiche è quella del cosiddetto “scontro di civiltà”, qualcosa che secondo alcuni dimostrerebbe l’inesistenza delle classi: invece bisogna ribadirlo, lo scontro è NELLA civiltà globale del capitalismo. E speriamo di poter mostrare, con questo come attraverso i contributi segnalati in fondo, che anche nella galassia islamica, come in Medio Oriente, esistono i padroni, i subalterni e lo scontro tra interessi contrapposti. In altre parole, il capitalismo!
Da più di trent’anni si sta diffondendo nei paesi islamici un sistema finanziario alternativo a quello convenzionale (e di origine soprattutto occidentale), perché improntato su alcuni precetti religiosi. Si tratta, in particolare, del divieto d’interesse (ribā) nelle transazioni finanziarie e il divieto d’investimento in attività soggette a eccesso di incertezza ed ambiguità (gharār) ed in quelle che implichino il ricorso alla speculazione e all’azzardo (maysir). Ciò non significa che il capitale prestato non debba percepire alcuna remunerazione; solo che essa è condizionata.
Secondo una specifica interpretazione dei precetti del Corano e la sunna del Profeta Muhammad, il denaro non può generare altro denaro. Per crescere deve essere investito in attività concrete e produttive. Uno dei pilastri fondamentali della finanza islamica è dunque il divieto di ottenere il pagamento di interessi fissi o predeterminati sui fondi prestati.
Il Corano condanna tanto l’usura quanto l’alea, ma anche i guadagni smisurati, e naturalmente le frodi. Considera invece l’elemosina, sia quella spontanea (sadaqa) che istituzionalizzata (zakāt), una pratica fondamentale di ogni buon credente. Nella tradizione islamica, infatti, il profitto e l’accumulo della ricchezza trovano legittimazione, di fronte a Dio, soltanto attraverso l’attività operosa dell’uomo: il lavoro legittima il profitto e l’accrescimento del capitale.
Con riferimento alle obbligazioni pecuniarie il termine ribā, cioè “usura”, comprende nella sua accezione più ampia sia il lucro prettamente usurario e qualsiasi aumento pattuito del capitale dato in mutuo, sia ogni sorta di “ingiustificato” arricchimento.
Lo scopo dei suddetti precetti islamici è quello di rendere il fedele musulmano, membro di una società islamica, una sorta dihomo oeconomicus islamicus, socialmente giusto e altruista – dunque in contrapposizione con la teoria e la prassi economica moderna.
È importante la distinzione tra le due diverse forme di carità: la prima è volontaria (sadaqa) e nasce dalla generosità del credente; la seconda è istituzionalizzata (zakāt), e grazie all’elaborazione giurisprudenziale è divenuta una vera e propria tassazione. La zakāt costituisce uno dei cinque pilastri dell’Islam: la shari’a impone a ogni musulmano con capacità contributiva di pagare un’imposta a titolo di assistenza pubblica. In altre parole si tratta dunque di una specie d’imposta prelevata dal reddito dei musulmani benestanti e destinata alla realizzazione di opere pubbliche a favore delle comunità meno abbienti (poveri e diseredati).
In seno alla comunità dei teorici della finanza islamica, vi è però un vasto consenso sul fatto che la tradizione islamica non contesti il principio della remunerazione del denaro dato in prestito (senza il quale il sistema bancario non sopravvivrebbe) ma rifiuti soltanto l’aspetto predeterminato dell’interesse. È cioè accettato il fatto che non ci può essere guadagno senza un margine di rischio, e chiunque non voglia assumere rischi ha diritto solo alla restituzione del capitale prestato, nulla di più. Si è dunque verificata la necessità per i giuristi e gli economisti musulmani di definire un approccio alternativo all’interesse per garantire un rapporto rischio-rendimento più equo ma anche efficiente. Questo principio, che risale ai primi tempi dell’Islam, è un sistema equity-based nel quale l’unica forma di remunerazione possibile sono i profitti derivanti dagli investimenti (ex post), e non un ammontare prefissato (ex ante). Il principio di partecipazione ai profitti e alle perdite implica un vero e proprio rapporto di cooperazione tra il finanziatore e l’investitore, in opposizione al principio di massimizzazione dei profitti e di minimizzazione delle perdite che caratterizza il sistema finanziario convenzionale – nel quale si opera una differenziazione del rischio piuttosto che una condivisione.
Questi principi/divieti, adottati dalle banche e dagli istituti finanziari islamici, che realizzano prodotti bancari-finanziari conformi ai precetti del Corano, consentono al sistema finanziario islamico di non allontanarsi dall’economia reale e di tutelare soprattutto i piccoli investitori e i risparmiatori.
Nei paesi islamici, un vero e proprio sistema bancario finanziario nacque alla fine del XIX secolo, in seguito al processo di decolonizzazione avvenuto nel secondo dopoguerra, quando le principali banche dei paesi occidentali cominciarono ad aprire filiali nei paesi colonizzati. La scoperta d’importanti giacimenti di petrolio, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, incoraggiò la crescita dei rapporti commerciali internazionali e rese disponibili ingenti quantità di denaro.
Parte della ricchezza prodotta dal petrolio venne usata proprio per gettare le basi di un nuovo tipo di istituti che rispettassero lashari’a. Attorno al 1975 nacquero così le prime banche private islamiche, la Dubai Islamic Bank, e la Banca di sviluppo islamico (Islamic Development Bank – IDB). La IDB, la cui creazione fu concordata nel dicembre del 1973 nell’ambito della prima Conferenza dei ministri delle finanze dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), ha come scopo fondamentale sostenere e promuovere lo sviluppo socio-economico degli Stati membri dell’Organizzazione, ma anche dei paesi dove vivono minoranze musulmane. La Banca non può applicare tassi di interesse o commissioni. Inoltre i prestiti concessi non possono finanziare beni e servizi contrari ai precetti islamici e facenti parte di settori considerati illeciti – come il commercio di alcolici, di carne non macellata ritualmente o ancora di prodotti contrari alla morale islamica. L’IDB ha la sua sede principale a Gedda, in Arabia Saudita, e conta ad oggi cinquanta paesi membri.
Le cosiddette primavere arabe, con l’emergere dei partiti islamisti legati, più o meno direttamente, alla Fratellanza Musulmana, sembrava aver aperto un nuovo scenario per gli istituti bancari islamici. In Tunisia, ad esempio, paese considerato tra i più “laici” dell’area MENA, il partito Al-Nahda ha lanciato una campagna per integrare il sistema bancario nazionale con quello islamico. Ciò avrebbe portato, secondo la leadership islamista, all’aumento del volume degli IDE (Investimenti Diretti Esteri) stimolati dai fondi sovrani di paesi come il Qatar e l’Arabia Saudita. Un processo analogo era in corso in Egitto, prima della deposizione del presidente Morsi nell’estate del 2013.
L’attuale battuta d’arresto del cosiddetto Islam politico – quantomeno come movimento rappresentato da partiti che si affermano per via elettorale – ha però ridotto la portata del fenomeno, che al momento rimane di grande rilievo nell’area del Golfo e in Turchia.
da http://www.inventati.org/cortocircuito
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