Tanto tuonò che non poteva piovere. Dopo che i governanti dei 27 avevano alluso a tutte le minacce possibili, il Parlamento europeo di Strasburgo ha preso le misure al problema della Brexit nel più delicato dei modi. Una risoluzione votata quasi dai due terzi dei presenti, certo, ma “non vincolante”. Che contiene la richiesta a Londra di notificare la sua volontà di uscire dalla Ue, ma «appena possibile». Non c’è davvero fretta. Del resto, a ben vedere, quello di Starsburgo non è affatto un vero Parlamento. Basta pensare che non fa leggi e nessun deputato è abilitato a proporne, altro che “potere legislativo”….
L’unica botta vera alla Gran Bretagna è arrivata da Standard & Poor’s, una delle tre agenzie di rating Usa, che ha tolto la storica “tripla A” al debito pubblico britannico. Ora ne ha solo due, a significare un debito meno sicuro, ma pur sempre quasi al top (sono rimasti davvero pochi i paesi a “meritare la tripla”, dalla crisi del 2008 ad oggi).
A bloccare il Parlamento sono le stesse regole che in altre occasioni strangolano i paesi deboli. L’art. 50 del Trattato di Lisbona prevede che debba essere il paese che vuole andarsene a “richiedere” l’apertura della procedura d’uscita (mai applicata, peraltro, quindi incognita). E il dimissionario Cameron non ha alcuna intenzione di spingere il bottone dell’addio.
L’unica accelerazione, dunque, viene dal partito conservatore che deve scegliere il suo successore. L’establishment deve scegliere i due candidati da sottoporre al giudizio degli iscritti, e tutta la partita in queste ore si sta giocando sull’esclusione di Boris Johnson – sostenitore di punta del leave, ma che ora appare spaventato dal proprio inatteso successo – dal binomio dei candidati. Troppo popolare, vincerebbe a mani basse tra i tories. Il tentativo è quello di arrivare all’inizio di settembre con un segretario-premier in pectore, che dovrebbe comunque essere investito dal congresso del partito, dunque difficilmente prima del 2 ottobre.
Stessa situazione – non paradossalmente – in campo laburista, dove Jeremy Corbin sarà oggi sfiduciato dal gruppo parlamentare (blairiano spinto), ma non si dovrebbe dimettere per appellarsi invece al giudizio degli iscritti. Gli stessi che lo hanno scelto solo pochi mesi fa, contro la “casta”.
Tornando a Strasburgo, la risoluzione “non vincolante” spende molte parole aspre (“attivazione, altrimenti nessun negoziato”, ha detto Jean-Claude Juncker nel suo discorso) per cercare di eliminare l’incertezza che ballonzola sui mercati. Attivazione «necessaria a ciascuno per evitare una incertezza che sarebbe dannosa, e proteggere l’integrità dell’Unione» e, almeno ufficialmente, nessuna trattativa sottobanco fuori del mandato referendario, perché «la volontà espressa dal popolo deve essere interamente e scrupolosamente rispettata».
In realtà, la speranza di Bruxelles è che abbiano successo gli innumerevoli tentativi di mettere tra parentesi il risultato del referendum. Lo stesso Nigel Farage, proprio a Strasburgo, ha voluto rassicurare tutti gli operatori economico-finanziari che in realtà neache lui vuole cambiamenti effettivi su questo piano.
Non giovano infatti né alla Gran Bretagna né all’Unione Europea – e ancor meno ai mercati – le montanti tensioni tra scozzesi e nordirlandesi, decisi a rispettare il loro mandato popolare a rimanere nell’Unione (impagabile l’immagine dell’incontro tra l’ex leader dell’Ira ora vice primo ministro dell’Ulster, Martin Mcguinness, e la regina Elisabetta, contenta di essere “ancora viva”, al contrario del suo cugino Lord Mountbatten, morto nell’esplosione del suo yacht nel 1979, ad opera proprio dell’Ira). Eventuali referendum per staccare i due paesi dalla Gran Bretagna, infatti, complicherebbero oltre misura le trattative per concretizzare il leave.
Inevitabile, dunque, lasciare alla Gran Bretagna tutto il tempo di metabolizzare seriamente il risultato del referendum, selezionare una nuova classe dirigente capace di gestirlo, ed avviare infine una trattativa pluridecennale nella speranza che a Londra i cittadini ci ripensino. Del resto, sbrogliare la matassa fatta di 40 anni di accordi commerciali, finanziari, legislativi, ecc, è compito da far tremare le vene ai polsi di chiunque. A meno di non tagliare quei nodi come Alessandro a Gordio. Ma quest’ultimo scenario aprirebbe sul serio una fase tipo post-Sarajevo 1914…
Keep calm and think seriously, insomma, nessuno ci corre dietro. Anche “i mercati”, in fondo, sanno che la Gran Bretagna non è la Grecia e non si può tagliarle i viveri come è stato fatto con Atene giusto un anno fa, quando si fecero mancare i contanti ai bancomat… Londra stampa sterline in libertà, non euro sotto comando.
Si farà pressione, certo, con il massimo degli strumenti e della decisione possibile. Ma cercando di limitare i danni per entrambi i contendenti…
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