L’assassinio, mercoledì mattina, nel centro di Kiev, del redattore del sito web Ukrainskaja Pravda, Pavel Šeremet ha sollevato un’ondata di indignazione internazionale, non lesinata nemmeno dal Dipartimento di stato USA. Sdegno è stato espresso dalle Nazioni Unite e dall’Osce; preoccupazione e smarrimento dal Ministero degli esteri russo; “ferma condanna” da parte delle Federazioni internazionale ed europea dei giornalisti. Dopo che la Tass si era rivolta per un commento alla FNSI, anche questa ha emesso un comunicato in cui si auspica “che le autorità ucraine facciano presto luce sull’accaduto”. Il portavoce del Dipartimento di stato, mentre conferma che l’FBI collaborerà nelle indagini – è la prima volta che si intromettono direttamente, nonostante dispongano di uffici direttamente nella sede del SBU: perché il caso è così importante? – con il Servizio di sicurezza ucraino, ha dichiarato che “non è possibile sopportare simili assassinii in una società libera e democratica”: una formula che pare sottintendere come l’odierna situazione dell’Ucraina golpista, al di là dell’ennesimo omicidio di un giornalista, al di là degli assassinii e delle bastonature di deputati dell’opposizione, al di là della messa fuori legge di partiti, in primo luogo quello comunista, al di là di un’aggressione armata scatenata contro una parte della propria popolazione, quella del Donbass, sia dopotutto “libera e democratica”. Una dichiarazione non di molto diversa è quella del presidente della commissione della Duma per le questioni della CSI, Leonid Slutskij, secondo il quale l’assassinio di Šeremet “getta ombre sulla situazione della democrazia e della libertà di parola in Ucraina”: nessuna “ombra” senza questo ennesimo omicidio?
Il sito web Ukrainskaja Pravda non è propriamente quello che si dice un sito di informazione “alternativa” – tra l’altro, non si fa mistero della sua creazione, nel 2000, con finanziamenti statunitensi – e non prende certo le difese delle Repubbliche popolari e nemmeno mostra simpatie filorusse; addirittura, alcuni servizi sembrano mantenere un certo “equilibrismo” nell’esporre le posizioni dei battaglioni neonazisti. Il suo orientamento pare semmai di “anticorruzione”, di “smascheramento” dei legami tra alti funzionari e clan affaristici e oligarchici nelle varie aree del paese.
In ogni caso, Pavel Šeremet, considerato “moderatamente antirusso e antibielorusso”, non è il primo dei giornalisti, ucraini e non, morti di morte violenta in Ucraina a partire dal golpe del febbraio 2014. Secondo un dossier della Tass, il suo sarebbe l’ottavo omicidio di risonanza internazionale nella patria della “libertà e democrazia”. E la sua morte è stata seguita, appena poche ore dopo, dall’accoltellamento di un altro giornalista, sempre a Kiev. Altri giornalisti sono morti sul fronte della guerra nel Donbass: quelli di cui si ha notizia sono almeno quattro corrispondenti e operatori TV russi, il fotoreporter italiano Andrea Rochelli e il fotografo dell’ucraina “Segodnja”, Sergej Nikolaev. L’elenco si allunga con l’omicidio anche di redattori di pubblicazioni locali, a partire dall’aprile 2014; e poi, nel tragico rogo del 2 maggio 2014 a Odessa, appiccato alla Casa dei sindacati da nazionalisti e neonazisti di Pravyj Sektor, in cui morirono 48 persone, almeno due di esse erano giornalisti. E poi ancora in giugno, in novembre; in marzo 2015 e poi, nell’aprile, quello del famoso giornalista Oles Buzina, freddato sotto casa da due neonazisti di Pravyj Sektor, arrestati un mese dopo e quasi immediatamente rimessi in libertà.
Nelle ultime pubblicazioni, Šeremet tesseva le lodi dell’attività dei Servizi di sicurezza e proprio mercoledì, secondo il sito del battaglione neonazista “Azov”, si preparava a pubblicare un servizio in cui si dava conto di una “azione comune di “Azov”, sindacati indipendenti e minatori contro gli aumenti tariffari”. Šeremet era un sostenitore della guerra nel Donbass e, sostiene il politologo ucraino Sergej Slobodčuk, era “un chiaro giornalista proamericano, che lavorava per la macchina propagandistica USA”; e tuttavia, la sua morte va inquadrata nella “svolta verso la guerra e nelle aggressioni contro i pochi sostenitori del dialogo con la Russia”. Altri osservatori legano il suo omicidio ai tentativi di destabilizzazione ora in atto in Armenia, in Kazakhstan e, probabilmente, anche in Bielorussia. La maggior parte degli analisti concorda sul carattere dimostrativo dell’assassinio; ma, ovviamente, non manca la “pista russa”, ventilata dal consigliere del Ministero degli interni, Zorjan Škirjak. Il politologo ucraino Vadim Karasev propende invece per una “vendetta criminale”, dato che Šeremet “stava scavando in una serie di affari loschi, tra cui alcuni riguardanti la regione di Odessa. Evidentemente, era arrivato a qualche pesce grosso e aveva toccato gli interessi di qualcuno; oltretutto, la “pista russa” è infondata, solo per la constatazione che, al contrario, oggi Mosca è interessata non alla destabilizzazione dell’Ucraina, ma a proseguire sulla via del dialogo”. Secondo Ruslan Bortnik, si tratta di un avvertimento lanciato a tutti i giornalisti, che negli ultimi tempi si erano dati troppo da fare per scoprire la corruzione dilagante. Appena due giorni prima, Šeremet aveva scritto della scarcerazione di alcuni “pesci grossi” di Naftogas e di altri interessati alla privatizzazione delle strutture dell’interporto di Odessa: due giri d’affari in cui, non da ora, si intrecciano gli interessi delle cerchie di Mikhail Saakašvili e Petro Poroshenko, da una parte e di Igor Kolomojskij, Arsenij Jatsenjuk e del Ministro degli interni Arsen Avakov (quello che da giorni sta parlando di percoli di golpe) dall’altra e della presenza, nell’area di Odessa, di non pochi squadristi dei battaglioni, reduci dal Donbass. Squadristi che figuravano anche in un’altra operazione anticontrabbando nella regione di Zaporože. In ambedue le occasioni, si era ripetuta la collaborazione tra Servizi di sicurezza e Azov: allo stesso modo che nel Donbass, aveva scritto Šeremet tessendo le lodi di Azov, in cui i battaglioni sono usati come gruppi d’assalto.
Ma non si esclude nemmeno la pista neonazista, dei battaglioni e dei raggruppamenti di cui, tra l’altro, Šeremet scriveva non poco – l’ultimo esempio era stata la pubblicazione dell’appello lanciato dal “führer” di Azov, Andrej Biletski, a seguire l’esempio turco e organizzare un colpo di stato – e proprio mercoledì, Šeremet avrebbe dovuto partecipare a una trasmissione TV in cui si apprestava a fare dichiarazioni contro Azov, oltre a parlare proprio della possibilità di un colpo di stato in Ucraina. In ogni caso, sul sito web del battaglione neonazista, già mercoledì, erano apparse le “condoglianze alla famiglia e ai congiunti del giornalista Pavel Šeremet. Abbiamo perso uno dei pochi amici tra i giornalisti ucraini”.
Ma, dietro l’omicidio di un giornalista, si prepara davvero uno scenario turco per l’Ucraina? Svobodnaja Pressa scriveva ieri che i golpisti di Kiev stanno preparando il terreno per introdurre la legge marziale nel paese. Un passo che potrebbe andare a favore del settore dei Servizi di sicurezza e del falco Aleksandr Turcinov, intenzionato a mettere in campo ogni espediente per far fallire i colloqui di Minsk. Per la verità, per il probabile attacco ucraino al Donbass, non c’è alcuna necessità di legge marziale: lo si comincia e basta. Invece, se la legge marziale potrebbe mettere in non poca difficoltà Poroshenko sul piano internazionale, gli potrebbe però tornare utile nella lotta di interessi con altri clan affaristici interni. Il fatto che della eventualità ne parlino anche deputati del Blocco Poroshenko, potrebbe essere un segnale lanciato agli oligarchi concorrenti, sul fatto che la cricca al potere è disposta a tutto pur di mantenersi a galla.
Che Pavel Šeremet sia stato la vittima sacrificale degli intrighi interoligarchici e il suo assassinio abbia costituito il segnale della smania golpista di mostrare platealmente in che modo si regolino i conti con avversari e “simpatizzanti” del regime troppo scalmanati?
Fabrizio Poggi
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