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Siria, Erdogan passa all’incasso da Usa e Russia

Nonostante le forti aspettative – in particolare del presidente statunitense – né i colloqui a margine del g20 tra Obama e Putin né quelli tra John Kerry e Sergej Lavrov sono riusciti a dirimere una serie di controversie che per ora rendono impossibile il raggiungimento di un accordo sulla Siria tra le due maggiori potenze coinvolte nel conflitto che ha ridotto il paese in macerie.

Il capo del Cremlino ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa, organizzata dopo il faccia a faccia con l’inquilino della Casa Bianca, di aver percepito “un certo riavvicinamento” nelle posizioni dei due paesi che potrebbe presto portare ad una de-escalation in Siria. "Possiamo dire che il nostro lavoro reciproco con gli Usa nella lotta al terrorismo, anche in Siria, sarà significativamente incrementato e intensificato" ha detto Putin che approfitta delle contraddizioni nelle politiche degli Stati Uniti per sottolineare il maggiore ruolo esercitato dalla Russia in Medio Oriente.

Ma le questioni in ballo sono molte e di difficile soluzione. Ad esempio gli Stati Uniti continuano a insistere sull’uscita di scena più o meno immediata del presidente siriano Bashar Assad già a partire dall’inizio di una eventuale fase di transizione. Inoltre Washington chiede una maggiore tolleranza russa per alcuni gruppi islamisti, salafiti e anche jihadisti che invece Mosca non vuole proprio togliere dall’elenco delle organizzazioni da considerare di natura terroristica e quindi da continuare a perseguire militarmente anche in un eventuale scenario di cessate il fuoco generalizzato. L’accordo in discussione tra Usa e Russia comprenderebbe anche la proclamazione di una tregua su tutto il territorio siriano che permetta la consegna di aiuti umanitari anche ad Aleppo, città però che sia le truppe turche e dell’Esercito Siriano Libero (sostenute in parte da Washington) sia le forze lealiste e gli alleati sciiti di Hezbollah e delle milizie siriane stanno cercando di riconquistare proprio in questi giorni. Un accordo di questo genere impegnerebbe Mosca a bloccare del tutto gli attacchi aerei contro le organizzazioni islamiste e impegnerebbe Damasco a fare altrettanto, ed inoltre costringerebbe le forze lealiste a ritirarsi dal territorio a nord di Aleppo, lasciando campo libero ai gruppi di miliziani manovrati da Ankara e che Washington corteggia, il che lascerebbe una parte della importante città fuori dal controllo governativo siriano e aprirebbe la strada ad una spartizione della Siria in ‘cantoni’ controllati da diverse potenze o comunque alla divisione in diverse aree di influenza.
In cambio gli Usa si impegnerebbero – secondo quanto l’inviato degli Stati Uniti per la Siria, Michael Ratney, ha spiegato in una lettera indirizzata ad alcune organizzazioni della ribellione armata – a contrastare non solo lo Stato Islamico ma anche al Qaeda (cosa che evidentemente attualmente non fanno) venendo così incontro ad una delle richieste di Mosca.

In attesa di capire se i due giganti – uno in apparente ascesa, l’altro in sicuro declino – riusciranno a trovare una quadra soddisfacente per entrambi, chi sembra gongolare è il ‘sultano’ turco Erdogan, che ha approfittato della riunione in Cina dei 20 più grandi del pianeta non solo per legittimarsi a livello internazionale dopo il fallito golpe del 15 luglio, ma anche per tentare di passare all’incasso proprio nei confronti dei due alleati recalcitranti, Usa e Russia.

Convinto che il ruolo della Turchia in Medio Oriente sia imprescindibile e di poter quindi continuare a pretendere concessioni da parte dei due recalcitranti presidenti, Erdogan ha chiesto di accettare l’imposizione di una zona cuscinetto, con annessa zona di non sorvolo (o ‘no fly zone’, come dicono a Washington) gestita dalla Turchia nel nord della Siria, e l’immediata – entro l’11 settembre – tregua almeno ad Aleppo. Il ‘sultano’ spera così che le forze militari controllate da Ankara guadagnino tutto il terreno possibile verso sud a spese dei governativi e dei curdi, per poi cristallizzare la situazione ed andare a dettare legge ad un eventuale tavolo delle trattative con un piede ad Aleppo.

Non è dato sapere quale sia stata la risposta di Obama e Putin a Erdogan (anche se salta agli occhi che alcune delle richieste del presidente statunitense all’omologo russo coincidono in pieno con quelle presentate ai due leader da Erdogan), e neanche se ce ne sia stata una. Il ‘sultano’ continua a tentare di forzare la mano ai propri “riottosi alleati” sperando che prima o poi, a furia di tirare la corda, questa non si spezzi.

La gestione dei rapporti con la Turchia costituisce una contraddizione in particolare per gli Stati Uniti, ma anche per i russi. Entrambi tentano di mantenere un rapporto privilegiato con i curdi e nel caso di Mosca di non far saltare il fronte costruito negli ultimi anni con Iran, Siria, Hezbollah e sciiti iracheni. Se Teheran e Damasco non vedono di buon occhio il rafforzamento dell’enclave curda in Rojava e possono accettare un intervento turco entro i confini siriani che ridimensioni sia i curdi che lo Stato Islamico, non possono invece tollerare, se non come extrema ratio, che Ankara si impossessi di un pezzo di territorio siriano. In questo senso Damasco e Teheran  potrebbero mal digerire una eccessiva disponibilità di Mosca nei confronti dei diktat di Ankara.

Gli Stati Uniti vogliono dal canto loro evitare di perdere definitivamente la Turchia con le sue fondamentali basi Nato e dopo il fallito golpe del 15 luglio, realizzato con un certo grado di collaborazione o comunque di tolleranza da parte di Washington, l’amministrazione Obama sembra, almeno per ora, disposta a subire le imposizioni di Erdogan.

Nel tentativo di rassicurare i curdi, che da quando è iniziata l’invasione turca del nord della Siria – il cosiddetto ‘Scudo dell’Eufrate’ – subiscono gli assalti armati delle truppe corazzate turche e dei mercenari del cosiddetto Esercito Siriano Libero e della Brigata ‘Sultan Murad’, il Dipartimento di Stato statunitense ha inviato la scorsa settimana una emissario in Rojava. Brett McGurk, inviato speciale di Obama per la lotta contro lo Stato Islamico, ha incontrato alcuni dirigenti delle Forze democratiche siriane (Fds), una alleanza di combattenti curdi, arabi e turcomanni guidata dalle Ypg (Unità di protezione del popolo). McGurk avrebbe ribadito l'impegno "continuo degli Stati Uniti a sostenere le Fds nella loro lotta contro l'Isis", sottolineando tuttavia "la necessità (per le Fds) di rispettare rigidamente i loro precedenti impegni", cioè di ubbidire all’ordine turco di ritirarsi ad est dell’Eufrate, che le Fds hanno ottemperato solo in parte. Qualche giorno prima aveva incontrato anche i dirigenti turchi "per discutere del sostegno Usa al totale sradicamento dell'Isis dalla regione di confine, di piani per la ripresa di Mosul in Iraq e di una cooperazione turco-americana più stretta per accelerare la sconfitta dell'Isis", ha sottolineato ancora il portavoce del Dipartimento di Stato di Washington. 

 

Marco Santopadre

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