Un agguato con diciassette militari uccisi riaccende la tensione fra India e Pakistan. Le vittime sono soldati indiani della base di Uri, attaccati da un commando di quattro uomini che è stato poi eliminato dai rinforzi indiani. La struttura si trova a ridosso d’una zona cuscinetto d’oltre trenta chilometri che divide le due nazioni per il conteso Kashmir, regione ampia e montuosa che sovrasta lo stato indiano e che continua a essere nelle mire pakistane. E pure cinesi. Storia antica, risalente al dissolversi del Raj britannico, ma tuttora viva. Una storia intrisa di sangue, soprattutto fra le comunità pakistana e indiana coi loro governi che aggiungono tensioni nazionali e religiose alle smanie di supremazia politico-economica. L’area rivendica una sua autonomia attraverso politici locali, che devono fare i conti coi colossi in competizione e con tutti i loro giochi palesi e occulti. I commenti all’assalto da parte di New Delhi sono durissimi: il responsabile delle operazioni militari, generale Dalbir Singh, ha additato i “terroristi stranieri con marchio pakistano”, mentre il premier Modi promette ai concittadini che “non lascerà impunito un attacco deprecabile e vile”, non dicendolo ma facendo intendere che i manovratori occulti sono i leadership politici e militari del Paese attiguo e rivale.
Per Intelligence e forze di sicurezza indiane comprendere dove possa avvenire un prossimo attacco su un confine lungo centinaia di chilometri, non è semplice, anche per come i pakistani risultano attrezzati coi propri Servizi, criminalmente abili nelle operazioni di copertura se non di aperto sostegno a ogni componente destabilizzante (si pensi ai talebani delle Fata) nonostante quel che dichiarino i due Sharif, il premier Nawaz e il capo di Stato Maggiore dell’esercito Raheel. Ma l’Inter-Services Intelligence è un mondo a parte e già in passato ha manifestato tendenze autonome dalla linea ufficiale del governo come raccontano i passati contrasti fra i vertici dell’Isi e il generale-presidente Musharraf. Dunque Islamabad potrebbe fomentare le pretese dei ribelli kashmiri diventati sempre più ardimentosi con assalti in puro stile guerrigliero. Secondo quanto riferiscono alcune agenzie in queste ore si registra un enorme afflusso di truppe indiane nella zona di Uri e il fatto che il capo delle Forze Armate indiane Dalbir Singh abbia sospeso due viaggi pianificati in questo periodo, negli Stati Uniti e in Russia, mostra la delicatezza del momento. Il contrasto s’era inasprito anche attraverso le dichiarazioni rilasciate nelle ultime settimane dalla politica pakistana che accusava gli indiani di feroci repressioni fra gli abitanti del Kashmir, definite crimini contro l’umanità.
Nel luglio scorso proteste e scontri erano rimontati pesantemente. La gente di molti villaggi kashmiri s’era opposta alle forze dell’ordine indiane, imitando la guerriglia inscenata dai separatisti nella cittadina di Srinagar. Inoltre un episodio era risultato devastante: l’uccisione di Muzaffar Wani, leader degli Hizbul mujaheddin, che sono i ribelli locali sospettati di aiuti pakistani. Da quel momento molti ragazzi si son trovati a dar manforte ai militanti della formazione attiva dagli anni Novanta, il periodo in cui il conflitto separatista aveva rinfiammato la valle. Wani, ventidue anni, veniva venerato come un politico antagonista a tutto tondo, dalle azioni militanti (alcuni sostengono non violente, sebbene lui stesso si facesse ritrarre a imbracciare un kalashnikov) a quelle di propaganda in giro fra la popolazione. L’aneddotica sul giovane leader racconta che non si facesse mancare una presenza virtuale: le sue riflessioni e gli appelli sul web riscuotevano un gran seguito sui social media. Ma al di là dell’emotività suscitata dalla sua dipartita occorre notare che il conflitto ha ripreso quota da quando Narendra Modi è salito al potere. Con lui l’ultranazionalismo indù del Bharatiya Janata Party scuote la vita interna e le ferite aperte come quella del Kashmir sanguinano e fanno sanguinare.
Enrico Campofreda
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