Dopo Tulsa e Charlotte si allunga ancora la lista dei cittadini afroamericani uccisi dalla polizia negli Usa: un uomo è stato colpito a morte in un centro commerciale di El Cajon, nei pressi di San Diego, dove una pattuglia era intervenuta dopo aver ricevuto una chiamata che segnalava un individuo dal comportamento "strano".
Un uomo di circa 30 anni, Alfred Orlando, è morto in ospedale dopo essere stato ferito da diversi colpi d’arma da fuoco esplosi dagli agenti della polizia di un sobborgo della città californiana di San Diego. Gli agenti si sono giustificati dicendo che, di fronte all’ordine di fermarsi, l’uomo avrebbe “estratto un oggetto dalla tasca, impugnandolo poi con entrambi le mani”.
Secondo il capo della polizia della cittadina californiana, Jeff Davis, un agente avrebbe tentato di bloccare Orlando con una pistola stordente, poi un secondo poliziotto avrebbe aperto il fuoco "ripetutamente".
Subito dopo l’omicidio alcune centinaia di persone, inclusi i leader della comunità e di alcune chiese locali, hanno protestato in strada per diverse ore accusando la polizia di razzismo e brutalità. Diverse persone hanno immediatamente circondato gli agenti di polizia protagonisti dell’intervento gridando “Mani in alto, non sparare” e “Le vite dei neri contano”, gli slogan del movimento di protesta – ‘Black lives matter’ – nato negli ultimi anni contro gli abusi e la violenza della polizia contro la comunità afroamericana.
Il capo della polizia ha ammesso che l’oggetto che la vittima avrebbe impugnato non era un’arma ma non ha voluto spiegare di cosa si trattasse.
Da parte loro alcuni testimoni hanno dichiarato di aver visto l’afroamericano, senza maglietta, con le mani in alto poco prima che venisse crivellato dai proiettili sparati dagli uomini in divisa, ben cinque stando ai racconti.
“L’inchiesta sull’accaduto – scrive la polizia su Twitter – è appena iniziata, ma sulla base del video volontariamente consegnato da un testimone appare che l’uomo non aveva le mani in alto” e che anzi impugnava un oggetto che poteva sembrare un’arma in procinto di sparare. La sorella della vittima ha spiegato che l'uomo ucciso dagli agenti soffriva di disturbi mentali ma che non costituiva un pericolo nè per se stesso nè per gli altri.
Intanto dopo molti artisti e sportivi afroamericani che nei giorni scorsi si sono platealmente rifiutati di onorare la bandiera e l’inno statunitensi in occasione di premiazioni e celebrazioni varie, a partire dal campione di football americano Colin Kaepernick, anche la tennista Serena Williams esprime la propria rabbia nei confronti del comportamento delle forze di polizia.
La campionessa, numero due delle classifiche mondiali di tennis, ha postato ieri un messaggio sul suo account Facebook, prendendo spunto da un episodio che le è accaduto personalmente: "Avevo chiesto a mio nipote di 18 anni di accompagnarmi in auto a un appuntamento, così da poterne approfittare per lavorare col mio smartphone. Da lontano ho visto un poliziotto sul lato strada. Ho immediatamente verificato se mio nipote stesse rispettando il limite di velocità – racconta Serena Williams – e mi è venuto in mente quell'orribile video di quella donna, passeggera di un'auto, il cui compagno è stato abbattuto da un poliziotto. Tutto è successo nella mia mente nel giro di pochi secondi. Ho persino rimpianto di non essere io alla guida. Non mi sarei mai perdonata se fosse successo qualcosa a mio nipote. E' così 'innocente'. Proprio come lo erano tutti gli altri. (…) Perché ho dovuto pensare a una cosa simile nel 2016?" si chiede la donna. "Mi sono resa conto che bisogna continuare ad andare avanti, che non è dove siamo arrivati ciò che conta, ma quello che ci resta ancora da conquistare". (…) "Poi mi sono chiesta perché non mi era ancora mai espressa, mi sono guardata allo specchio, ho pensato ai miei nipoti, se avessi delle figlie o dei figli. Come ha detto Martin Luther King: 'arriva un momento in cui tacere è un tradimento', e io non resterò in silenzio", conclude il suo post.
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