Nuovo Afghanistan sempre uguale – La due giorni dell’Unione Europea sull’Afghanistan – il 4 e 5 ottobre a Bruxelles – si presenta come una nuova tappa di quanto s’era già visto a Londra nel 2014 e a Tokio due anni prima. Si continua a parlare del nuovo Afghanistan, quello che non c’è, poiché nel Paese continua a regnare il caos. Come nel 2001, quando George W. Bush avviò il liberatorio Enduring Freedom o nel decennio precedente col conflitto fratricida fra i signori della guerra e successivamente col governo talebano. Warlords, Taliban sono soggetti presenti più che mai nel panorama interno tantoché il presidente Ghani, che molto s’è speso per quest’ennesima vetrina con la Comunità Internazionale, si porta al fianco un ministro degli Esteri dal nome celebre: Salahuddin Rabbani, che altri non è che il figlio di Burhanuddin, leader del gruppo islamista Jamaat-e Islami, signore della guerra ed ex presidente, morto in un attentato nel 2011. Non è questione di nemesi storica, fra padri e figli ciascuno risponde del proprio operato, ma quel cognome è legato a un clan e i clan tribali sono un tutt’uno coi mai morti signori della guerra. Tant’è che l’illusionista Ghani alla vigilia della conferenza di Bruxelles ha fatto annunciare dal suo staff una cordiale intesa con un altro temutissimo warlord di rango, Galbuddin Hekmatyar. Anche lui è in predicato ad avvicinarsi al governo afghano, che un altro signore delle armi lo sbandiera da tempo nel ruolo di vicepresidente: Rachid Dostum. Il fondamentalista Hekmatyar, noto come il macellaio di Kabul, dovrebbe fungere da ambasciatore verso i talebani cui Ghani guarda. Tenta anch’egli d’imboccare la scorciatoia già provata dai generali del Pentagono nel 2010-2011, quando non riuscendo a battere i Talib sul terreno, pensavano di sedurli al tavolino delle trattative.
Aiuti e mega affari – La premessa non è polemica, ma questo è l’attuale Afghanistan geopolitico. Risulterà utile per comprendere come più d’un presupposto discusso a Bruxelles dall’Unione Europea e da altri colossi mondiali presenti quali donatori-sostenitori e in qualità d’imprenditori per l’Afghanistan del futuro, viva stridenti contraddizioni. Soprattutto quando verranno trattati i temi del rafforzamento della democrazia, potenziamento delle norme di legge, protezione dei diritti umani e delle donne. Settanta sono i cosiddetti ‘donors’, molti di loro si propongono anche di fare impresa, altri vestono solo i panni industriali per progetti prestigiosi. Nella lista gli Usa tengono saldamente la testa; finora hanno versato, e probabilmente continueranno a versare, dollari tramite Casa Bianca, Pentagono e Ong. Seguono Giappone, Germania, Gran Bretagna, India, Canada, Olanda, Australia, Norvegia, Italia, poi altre nazioni europee. Cina e Russia non contribuiscono a fondo perduto, soprattutto la prima in quella terra sviluppa affari. E parlando di affaroni, nei progetti che coinvolgono un’ampia fetta del continente asiatico, l’Afghanistan si ritrova coinvolto nei piani del Carec (Central Asia Regional Economic Cooperation) un progetto per infrastrutture e trasporti finanziato dall’Asia Development Bank che s’estende a: Azerbaijan, Cina, Mongolia, Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistran, Tajikistan, Uzbekistan e Pakistan. Kabul è partner anche del discusso gasdotto Tapi (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) iniziato da dieci mesi che prevede di trasportare negli oltre 1.800 km di condutture 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Cinque miliardi riguarderanno l’Afghanistan e nell’indotto previsto c’è pure un’autostrada per collegare Herat a Kandahar.
Cieco sguardo dei Grandi – Il quadro che Ghani tenderà a definire con le personalità presenti – fra cui spiccano l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la sicurezza Federica Mogherini e il Commissario internazionale per la cooperazione e lo sviluppo Neven Mimica – ruota attorno a: effettivi sostegni e finanziamenti; sviluppo d’un piano di riforme (economiche, normative, di anticorruzione, di servizi pubblici); processo di pace. Tutto ciò deve fare i conti con un presupposto oggi assente nel Paese: appunto la sicurezza e il controllo del territorio. Non sono riusciti a garantirli l’invasione statunitense del 2001, la successiva Mission Isaf, conclusa nel dicembre 2014, né quella in corso Resolute Support. L’attuale governo di Kabul non governa in più della metà delle 34 province, con un timore crescente nelle attività d’impresa presenti, ad esempio nel settore estrattivo dove le aziende cinesi impegnate propagano ampie lamentele, e in quelle future di cui abbiamo citato due progetti ciclopici. Dopo circa un quindicennio di spese folli per gli “aiuti internazionali” che hanno raggiunto i 4.500 miliardi di dollari, investiti in gran parte per l’intervento militare (solo 357 miliardi hanno riguardato i servizi), si rilanciano interventi di sostegno lì dove i fallimenti sono già parsi cronici. Il documento diffuso alla vigilia di Bruxelles cita, ad esempio, strategie per la reintegrazione dei rifugiati. Proprio a seguito dell’insicurezza interna e d’una rinnovata crescita di vittime civili (nel 2015 oltre 3.400 con più di 7.000 feriti), sappiamo che gli afghani hanno ripreso a fuggire e costituiscono attualmente la seconda comunità mondiale di profughi (2.7 milioni).
Piani ripetuti – Fra gli sforzi per incrementare qualità e sostenibilità della vita si progettano investimenti per il ministero dell’Interno e la polizia. Sappiamo pure che su polizia ed esercito locali s’è consumato il più grosso flop degli investimenti internazionali. Ma si fa finta di nulla. Altri obiettivi riguardano la riduzione del crimine tutt’uno con la produzione e il traffico di oppio e derivati. Un settore controllato dai signori della guerra e degli affari cui il governo afghano è legato, e che rifornisce il 90% del mercato mondiale. Medesimo discorso per la corruzione che prosegue sotto gli occhi e con la partecipazione di faccendieri mascherati da manager, come nel caso di mister Ferozi, ladro di Stato nello scandalo della Kabul Bank, condannato ma nuovamente in pista per ulteriori speculazioni, stavolta in campo edilizio. Si riparla di diritti civili e di difesa delle donne da violenza e soprusi, per cui è stata varata da anni un’ottima legge (Elimination violence against woman), però quasi sempre inapplicata perché non si giunge mai al processo e nei rari casi di accusa i giudici cedono alle minacce sollevate da clan, padrini, signori delle armi che difendono gli imputati. Quindi il passato diventa presente: il ministero per gli Affari femminili ha registrato oltre 4.000 casi di violenza sulle donne nei primi nove mesi dello scorso anno. E allora qual è lo scopo della conferenza? Perorare affari, più o meno leciti. Poi buone intenzioni infarcite di promesse, e denari stanziati inutilmente, visto che realtà create dalla società civile locale che lavorano, ad esempio, su molti orfani, donne abusate, familiari delle vittime civili non ricevono sovvenzioni per creare strutture-rifugio. E’ un refrain già noto dall’epoca dei due mandati offerti all’uomo del nuovo corso post talebano: Hamid Karzai. Un presidente voluto dalla Casa Bianca che ha arricchito se stesso e i fratelli rimasti in vita, perché qualcuno l’ha perduto nelle faide sorte con compari diventati nemici.
Nazione assistita – Scuole e ospedali, di cui i sepolcri imbiancati della Comunità internazionale parleranno in Belgio facendo finta che le cifre stratosferiche impegnate finora non siano mai giunte in quelle lande, sono pure visioni. I centri sanitari esistenti li hanno creati Emergency e Medécins sans Frontières, sopravvivono da sé se non vengono bombardati dall’Us Air Forces, com’è accaduto a Kunduz. Allora i capitoli dell’attuale programma che citano sanità, formazione, sviluppo umano, fra gli obiettivi su cui stanziare altro denaro, hanno il sapore di trita e consumata demagogia. Si sa che buona parte della cooperazione mondiale è costituita da multinazionali ideologiche con chiari intenti politici (Usaid, creatura di JFK, è un esemplare quasi sessantennale) oppure autofinanzia la sua macchina lavorativa con scopi autoreferenziali. C’è poi il tratto, tutto italiano, d’un Parlamento che lega i fondi per la cooperazione a quelli per le missioni militari. Nella migliore delle ipotesi la cooperazione si trova a non poter controllare la catena degli aiuti che viene saccheggiata dalla corruzione amministrativa, politica, criminale. I soldi si disperdono nei cento rivoli di politici legati a gruppi di potere tribale, tutti inevitabilmente armati e motivati a far pesare questa forza. E’ un cerchio chiuso su di sé: i mega affari li fanno le multinazionali mondiali, l’imprenditoria locale è minuta e corrotta, non riesce a sviluppare nessuna economia autoctona degna di questo nome. Nazioni vicine, come il Pakistan, cannibalizzano tutto, anche l’agricoltura che costituisce tuttora il 59% della produzione interna (l’11% proviene dal commercio, l’8% dall’attività estrattiva). La tendenza internazionale è volta a tenere il Paese in ginocchio e la popolazione in povertà, lo riconosce la stessa Banca Mondiale affermando che un terzo degli afghani vive sotto la soglia minima di sostentamento. Conservare questo status, significa serbare un potere di controllo superiore alle stesse nove super basi aeree Nato che consentono a Ghani di volare da Kabul a Bruxelles per l’ennesima parata della conservazione oppressiva. Anche per questo i taliban sorridono.
Enrico Campofreda
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