L’Unione Europea dà tredici miliardi e mezzo di euro all’Afghanistan in cambio d’un congruo numero di rimpatri di profughi. Prendere o lasciare. Ovviamente il presidente Ghani che in Occidente, fra le due sponde dell’Atlantico, ha trascorso gran parte dei suoi giorni, dice sì. L’accordo non scaturisce dall’assise di Bruxelles appena conclusa, aveva storia e tempi già segnati. Lo rivela mister Ekram Afzali, capo di Integrity Watch Afghanistan, una Ong impegnata da un decennio a monitorare la disastrata situazione del proprio Paese. Lui parla di ‘quid pro quo’ nel significato inglese dell’accezione che sta per scambio di favori. Accadeva nel marzo scorso, quando l’amministrazione Ghani annaspava fra liti interne al suo governo (col premier Abdullah che non l’ha mai amato) e scarsa sicurezza del territorio. Dati benevoli parlano del 10% di aree non controllate, ma vari osservatori testimoniano una presenza talebana e una conflittualità in 15-16 province, dunque su metà del suolo afghano. Ora la stessa stampa mainstream ammette che tale presenza è ben superiore di quella del 7 ottobre 2001, quando George W. Bush iniziò il grande gioco di guerra e gli alleati Nato lo seguirono a breve.
Perciò il piano, che ufficialmente è stato definito ‘Joint way forward’, era pronto già a primavera, prevede soldi in cambio di rimpatri. E l’Alto commissario Ue Federica Mogherini non riesce a convincere neppure se stessa quando recita la parte della vestale affermando: “Non c’è mai un legame fra i nostri piani di aiuto e ciò che facciamo in materia di migrazione”. Dimentica bene, dimentica l’operato della cancelliera Merkel quando prometteva aiuti economici alla Turchia purché tenesse sul suo territorio i profughi siriani. Dunque l’ennesimo presunto progetto internazionale, stavolta più influenzato dai mal di pancia dell’Europa xenofoba di Visegrad che dallo stesso affarismo espansivo, su cui incombe l’incognita dell’insicurezza del territorio. Le linee guida dell’Unione restano ferree e l’uomo della Banca Mondiale, fatto presidente a Kabul, incamera denaro solo se riporta a casa più della metà dei 176.000 afghani che nel 2015 sono giunti sul suolo europeo e hanno fatto domanda d’asilo politico. Il 60% di loro ha ricevuto come risposta: nein! Il numero degli afghani era anche più numeroso, 213.000 nel 2015. Nei mesi dell’anno in corso non sono diminuiti, tanto che con 2.7 milioni rappresentano la seconda popolazione in fuga per la vita dentro il ciclopico flusso migrante di 65 milioni di anime.
C’è un particolare che i benefattori occidentali fanno finta di non conosce: rimpatriare gli afghani significa riportarli verso la morte, esporli alla guerra tuttora in corso in quelle lande, alla fame e miseria incombenti che coinvolgono il 40% della popolazione. Per ora l’apparato di Bruxelles, con Tusk in testa, ha mostrato solo il volto benefico degli stanziamenti, non si son fatte cifre di migranti da rimpatriare, né sono stati diffusi dettagli sui voli del mesto ritorno. Cosa che mette in ansia gli stessi funzionari governativi e quell’apparato burocratico di Kabul che vive all’estero. Anche loro temono il rimpatrio dei familiari che gli vivono accanto. Maiwand Rahyab, delegato a Bruxelles per l’Afghan institute for civil society ha lanciato pubblicamente un grido di dolore: “I Paesi d’Europa devono sospendere la possibile deportazione di rifugiati afghani. L’Unione Europea deve tener vivi i valori e il rispetto dei diritti dei rifugiati fino al momento in cui quella nazione non avrà la pace”. Oltre l’incolumità chi dovesse rientrare non può che essere ringoiato nel buco nero della disoccupazione, calcolato per difetto al 35%. E incrementare l’atavico, ma nuovamente crescente, fenomeno della migrazione interna con cui s’abbandonano i luoghi di guerra per cercare rifugio in altre province. Nella Kunduz contesa da Taliban e Anf, con strade deserte per lo stato d’assedio, negozi chiusi, assenza di elettricità e acqua corrente, un altro migliaio di famiglie sta trasmigrando a est verso Takhar. Ma non si sa per quanto.
Enrico Campofreda
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