Tutti insieme, però divisi verso Mosul. Iracheni, kurdi – in prevalenza i peshmerga di Barzani, ma a nord-ovest anche i guerriglieri del Pkk -, milizie sciite filo iraniane, turchi, e nei cieli bombardieri statunitensi e della coalizione Nato, italiani compresi. Tutti, addirittura novantamila, contro lo Stato Islamico, che perde territorio (circa il 20% nelle ultime settimane) e organizza una resistenza basata su autobomba e civili usati, contro la loro volontà, come scudi umani. I sette-ottomila miliziani di Al Baghdadi attuano una graduale ritirata strategica a ovest verso il conteso territorio siriano, approfittando di un paio di corridoi lasciati liberi dagli attaccanti e già oggetto di contestazione. E’ lo scenario che da ieri appare sotto gli occhi di osservatori e commentatori e potrà durare giorni o settimane. L’obiettivo ha un valore simbolico e parzialmente strategico, l’elemento prezioso rappresentato dalla diga sul Tigri era già nelle mani della coalizione anti Isis, che lì aveva dislocato la Brigata Aosta dell’esercito italiano. E ci s’interroga sul dopo riconquista, sui differenti obiettivi dell’avanzata, sui disegni di ciascun attore che non collimano e in alcuni casi confliggono con quelli altrui. Perché l’Iraq del post Saddam, invaso e stuprato dagli Stati Uniti – chi non ricorda le bombe al fosforo bianco sganciate su Falluja e l’inferno della prigione di Abu Ghraib – divenne territorio conteso fra etnie, tendenze religiose con tanto di riferimenti interni (i gruppi paramilitari sunniti filo qaedisti come Ansar al-Islam e i loro contendenti mujaheddin) e di sostegni esterni.
Gran parte dell’apparato militare baathista, traghettato nel dopo Saddam, s’è collocato dentro gruppi armati come quelli citati e altri ancora, misurandosi in un fratricida controllo del territorio. Per questo motivo la soluzione di compromesso che aveva visto nel 2005 le istituzioni divise fra una presidenza nazionale offerta a un politico kurdo, il premierato a un esponente sciita e la presidenza del parlamento assegnata a un sunnita, una sorta di soluzione alla libanese con la differenza della voluttuosa presenza di pozzi petroliferi, non riuscì a sanare una situazione che restava esplosiva. Per lo stillicidio di sanguinosissimi attentati e scontri tra fazioni, incentivata dall’esclusione dalle decisioni e dalla gestione socio-economica che la componente sunnita ha continuato a rivendicare durante i governi di al-Maliki, dopo la scelta federale. Quest’ultima garantisce lo sfruttamento delle risorse del territorio che in fatto di riserve energetiche favoriscono le zone abitate dalle comunità kurda e sciita. Anche dopo il ritiro degli eserciti occupanti Nato (2011) la vita civile ha incontrato l’ostacolo d’una viscerale lotta per il potere; e l’auto emarginazione della popolazione sunnita, che ha in varie circostanze boicottato le elezioni, ha ulteriormente isolato i suoi rappresentanti nell’amministrazione statale. La conseguente frustrazione, il mantenimento di un’elevata conflittualità hanno creato terreno favorevole alle posizioni fondamentaliste rappresentate dal nuovo jihad col marchio del Daesh, finito con le bandiere nere sventolate nella popolosa città e il proclama dell’autonominato Califfo.
Non partecipano direttamente all’operazione, ma combattono l’Isis sul fronte siriano i lealisti di Damasco fedeli ad Asad, gli alleati Hezbollah libanesi più i consiglieri da combattimento iraniani, con la supervisione e super copertura aerea russa. S’oppone allo Stato Islamico anche la coalizione delle petromonarchie e varie nazioni arabe (Egitto, Giordania, Marocco) più la Turchia, onnipresente e divisa fra l’alleanza politica con questi Paesi, quella militare con le forze Nato grazie alla quale lancia i suoi carri armati sul suolo iracheno, sebbene Barzani non gradisca. L’azione su Mosul, rapida o più lenta che potrà essere, rappresenta una fase di passaggio su un territorio la cui stabilizzazione non è stata resa possibile da guerre del Golfo, conflitti civili striscianti o palesi. La forma federale potrebbe proseguire la sua parvenza di autogestione etnica o confessionale, seppure iniqua per alcuni, ciò che viene a mancare è la forma Stato. La vede fallire anche Al Baghdadi che deve recedere dal sogno di due estati fa, sotto i colpi di tanti nemici, uniti comunque solo dall’essere avversi al suo fondamentalismo. Questo deve riparare nelle enclavi jihadiste siriane, finché reggeranno, o negli altri territori frantumati siano Libia, Yemen o chi verrà. Lo scenario che può profilarsi è la sconfitta del Daesh, come struttura statale e territoriale, e una sua conservazione come disegno politico teorico e armato d’opposizione all’Occidente, praticando l’attentato sanguinario che ne sconvolge la vita civile. Mentre un enorme tratto di Medio Oriente (Iraq e Siria per prime) potrà essere smembrato in più entità amministrative, secondo le mire delle potenze mondiali e regionali. E in faccia agli interessi dei popoli.
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