In questi giorni hanno fatto un po' di rumore – non più di un tintinnio di campanelli, in verità, visto il pulpito – due interviste concesse da Mikhail Gorbacev, a Tass e Associated Press, in cui il primo (e ultimo) presidente dell'Urss parla della possibilità di dar vita a un nuovo Stato unitario, non Socialista e tantomeno Sovietico, su base volontaria, nello spazio delle vecchie frontiere dell'Urss.
Nell'intervista alla Tass, Gorbacev ha anche detto di non aver voluto, 25 anni fa, imprigionare i protagonisti del complotto della Belovežskaja Puša – Eltin, Kravčuk e Šuškevič – come propostogli, ad esempio, dall'ex vice presidente russo Aleksandr Rutskoj, perché il loro arresto avrebbe scatenato una “guerra civile. C'era questo pericolo”. Così che il Riccardo cuor di leone russo, ripiegò su una opzione da par suo e scelse “un'altra strada: rinunciai al potere, me ne andai, per evitare un bagno di sangue”. E, fedele alla sua inclinazione, riversa oggi le responsabilità per la fine dell'Urss sulla “cricca del GKČP” (così Gorbacev definisce oggi, senza aver mai chiarito fino a che punto lui stesso ne fosse a parte, i componenti del Comitato statale per la situazione d'emergenza, che tentarono goffamente, nell'agosto 1991, di sventare i piani eltsiniani) e sulla “sete di potere” dello stesso Eltisn, riempiendo quindi quella figura avvinazzata di capacità, acume e perspicacia che, in verità, erano peculiari solo ai suoi manovratori d'oltreoceano.
A onor del vero, Gorbacev non ha dimenticato, nelle interviste, il diretto ruolo della CIA nelle vicende che accompagnarono la fine dell'Urss. “Non si può dire che gli USA siano intervenuti direttamente, specialmente all'inizio”, ha detto Gorbacev; “Nessuno pensava che si potesse liquidare l'Unione Sovietica. Poi cominciarono a dare una mano. Sotto il tavolo si fregavano le mani: quanti anni, quasi un secolo, avevano lottato contro la Russia e ora essa stessa si sminuzzava”. Nonostante Gorbacev avesse anche in precedenza, come ricorda Gazeta.ru, accennato all'allora Segretario alla difesa USA, Richard Cheeney, quale fautore della dissoluzione dell'Urss, pare che Bush senjor fosse favorevole alla sua conservazione, temendo conseguenze catastrofiche per gli armamenti nucleari. Ma il vice Ministro degli esteri sovietico Anatolij Adamišin, imputa proprio a Bush la ricerca di precisi scopi nel gioco geopolitico, con l'appoggio fornito non a Gorbacev, ma a Eltsin e il mirino già allora puntato sull'Ucraina, quale pedina chiave nella disgregazione dell'Unione Sovietica.
A proposito delle interviste di Mikhail Gorbacev, il segretario del PCFR, Gennadij Zjuganov, ha dichiarato che, sì, si deve ristabilire l'Urss, ma Gorbacev deve essere mandato sotto giudizio, per non aver rispettato la volontà del popolo, espressosi a larghissima maggioranza, nel marzo 1991, per la conservazione dell'Unione. Zjuganov, che, non senza fondamento, da più parti viene incolpato, insieme a tanti membri del PCUS, di non aver fatto nulla, all'epoca, per contrastare la cricca eltsiniana – è nella memoria di tutti come, nel giro di qualche ora, i comitati di partito, a tutti i livelli, si fossero come dissolti; come le sedi fossero state abbandonate alle incursioni dei “democratici”; come migliaia di membri avessero semplicemente gettato la tessera, ecc. – propone di concentrarsi, all'inizio, sulla “collaborazione con Kazakhstan e Ucraina. Russia e Bielorussia costituiscono già una tale unione. Sarebbero uniti oltre 200 milioni di uomini, un mercato enorme, con sbocco nei mari caldi”. Ovviamente, anche nella visione di Zjuganov, rimangono sostanzialmente nel vago tutte le questioni di quali forme dovrebbe assumere la nuova unione, per quali strade formarsi, quali forze dovrebbero contribuire alla sua nascita, quale le basi produttive e di proprietà, ecc.
E in ogni caso, Anna Sedova, su svpressa.ru, ricorda come, già nel 2012, il Segretario di stato Hillary Clinton dichiarasse che gli USA sono intenzionati a contrastare ogni processo integrativo nello spazio postsovietico, si chiami Unione doganale, Unione Euroasiatica o altro e majdan e l'Ucraina golpista non sono che l'esempio più drammaticamente eclatante. A guardar bene, sulla linea tracciata ora da Gorbacev, aveva invitato a muoversi, già pochissimo tempo dopo la fine dell'Urss, il perenne presidente kazakho, Nursultan Nazarbaev, che nel 1994 parlava di Unione Euroasiatica. Nel 1995, ricorda Sedova, Kazakhstan, Russia e Bielorussia sottoscrivevano un accordo di Unione doganale, cui si associavano anche Kirghizia, Uzbekistan e Tadžikistan, sviluppatosi nel 2001 nella Comunità economica euroasiatica, cui partecipavano come osservatori Moldavia, Ucraina e Armenia. Nel 2007, Bielorussia, Kazakhstan e Russia firmavano l'accordo di Unione doganale, entrato in funzione nel 2010; nel 2015 veniva sancita ad Astana la nascita dell'Unione economica euroasiatica tra Russia, Kazakhstan, Bielorussia, Armenia e Kirghizia.
A parere del direttore del Centro comunicativo euroasiatico, Aleksej Pilko, “a una stretta unione economica può verosimilmente far seguito una qualche forma di integrazione politica”, che “non si contrappone in alcun modo all'Unione Europea”, così che “non inciderà molto” il fatto che da tale unione restino fuori Ucraina, Georgia e Paesi baltici, punte avanzate USA e UE nell'area postsovietca. E a tale Unione potrebbero associarsi anche Tadžikistan e Azerbajdžan. Più scettico il politologo Sergej Bespalov che non vede alcuna prospettiva di unioni politiche, non solo per il lavorio contrario di USA e UE, ma anche per le contrapposte “tendenze integrative, ma soprattutto disintegrative, manifestatesi nei 25 anni dalla fine dell'Urss”, con la nascita di élite locali più interessate ai propri nazionali interessi e il rafforzarsi, nelle stesse Bielorussia e Kazakhstan, di ideologie tali per cui “la storia sovietica è vista non nella migliore delle luci”. E la sola integrazione economica, secondo Bespalov, non è sufficiente a garantire una salda unità di prospettive.
Soprattutto, la domanda da porre a Mikhail Gorbacev, dovrebbe essere relativa a quali prospettive egli vedesse aprirsi per il paese di cui continuava a essere presidente, allorché, nell'agosto del 1991, si dimetteva dalla carica di Segretario generale del PCUS e proponeva l'autoscioglimento del Comitato Centrale.
Fabrizio Poggi
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