Accanto ai tweet minacciosi di Trump questioni cogenti pesano sulla politica iraniana. E vanno oltre la stessa scelta della carica presidenziale su cui i risvolti di politica estera, comprese le stilettate del nuovo staff che siede alla Casa Bianca, avranno un peso. La scadenza di maggio può confermare la prudenza moderata del riformismo minimalista abbracciato da Rohani, oppure il sentimento nazionale può rinfocolarsi attorno ai nuovi volti che il partito dei Pasdaran si dà con uomini che cercano cariche ancor più prestigiose.
Fra costoro, il vento in poppa lo mostra Qassem Soleimani, da circa vent’anni al comando dei reparti d’élite Al Quds, che sul campo di battaglia siriano hanno garantito (assieme ai raid aerei russi) la sopravvivenza politica e anche fisica di Bashar Asad. Soleimani è carismatico, chi lo conosce bene lo definisce anche autoritario, certamente è un uomo navigato sui versanti militare e politico. Però alcuni conoscitori delle vicende interne iraniane, come la ricercatrice Massoumeh Torfeh della London School of Political Science, sostengono che Soleimani più che nella sfida elettorale potrebbe diventare il leader massimo delle Guardie della Rivoluzione, così da offrire ricambio all’attuale capo, Jafari, lui sì nuovamente in prima linea per presidenza come elemento di spicco del ‘partito combattente’.
C’è un ricambio anche nell’altra struttura paramilitare interna, quella dei basij: a fine 2016 Reza Naghdi è stato rimpiazzato da Hossein Gheibparvar. Naghdi può anche lui finire nell’agone elettorale, più che come uomo di punta, in qualità di ulteriore pedina del gruppo conservatore armato. Non si deve dimenticare che nel 2005 proprio i basij sostennero Ahmadinejad, l’out-sider diventato presidente, seppure col gradimento e la benedizione della Guida Suprema e degli ayatollah ultraconservatori che volevano azzerare l’era delle aperture riformiste di Khatami.
Di questi uomini-Stato (Jafari, Soleimani, Naghdi), muniti di tutte le chiavi degli apparati della forza, si può anche prevedere un impiego d’urgenza in situazioni inaspettate come potrebbero essere nuove proteste inscenate dall’ala dura del riformismo (che in realtà è stata sradicata e ridotta al silenzio) oppure in eventi inattesi: la morte prematura di Khamenei. Coi suoi 78 anni l’attuale Guida Suprema non è vecchissimo, due anni or sono fu operato d’un tumore alla prostata; operazione peraltro riuscita. Salute a parte, la sua mediazione fra gli estremi del clero, ultraconservatore e iperriformista, deve fare i conti con le varie sfumature teologiche, tutte comunque a sostegno del velayat-e faqih.
Ma nell’attuale fase due cardini della Rivoluzione islamica khomeinista riscontrano problemi: la scelta della prossima Guida Suprema e il princìpio del “governo dei giureconsulti”. All’orizzonte non si vede nessun delfino di Khamenei, né c’è l’ombra dei fermenti nella scelta conosciuti alla fine degli anni Ottanta. Allora il padre della Rivoluzione che aveva designato quale successore Montazeri con il titolo di marja’-e taqlid, esempio da imitare, decise di sacrificarlo perché non ne sopportava le critiche a certe sue mosse politiche. Riformando addirittura la neo creata Costituzione gli furono preferite figure di non elevata levatura teologica, dei chierici di medio rango (hojatoleslam) quali erano Khamenei e Rafsanjani, ma di spiccate capacità politico-organizzative. La coppia di amici-avversari ha gestito e vigilato il panorama politico interno per quasi un quarantennio.
Con la scomparsa di Rafsanjani – oltreché di Motahari, Taleghani, Baheshti, ayatollah di passate generazioni – le alternative a un compito delicatissimo, paiono mancare. Dalle scuole di Qom e Najaf nessun ayatollah sembra spiccare il volo verso un ruolo che non può che vedere teologi d’altissimo profilo. Alcune figure esistono, magari in terza età avanzata. Come l’ottantunenne teologo e filosofo Shabestari, di fama riformista seppure incontestabile perché scaturita dal pensiero di Ali Shariati, l’islamista rivoluzionario che ispirò lo stesso Khomeini.
Shabestari s’è molto speso per il dialogo fra sciismo e cristianesimo, afferma che la conoscenza religiosa debba porsi in continua trasformazione, ma il conservatorismo interno non gli perdona la difesa della democrazia e dei diritti umani. Altri volti noti sono fuori gioco: Hajjarian, che al di là di problemi fisici (rimase semiparalizzato dopo un attentato subìto nel 2000) è ostracizzato per le posizioni riformiste e tuttora non può parlare in pubblico.
Nome d’alta levatura teologica è Soroush, professore di fama internazionale considerato un liberale (ama Hobbes), critico del laicismo anarchico e del fondamentalismo islamico perché entrambi sottovalutano debolezze umane e uso del potere. In un’intervista sul tema della mancanza di un delfino Khamenei ha detto: “Le basi della Rivoluzione e del pensiero rivoluzionario dovrebbero essere così forti che la vita e la morte non dovrebbero influenzare il futuro”.
Però c’è chi si preoccupa. Se lui dovesse improvvisamente mancare la prossima Guida Suprema sarebbe decisa da questi tre organismi: Consiglio dei Guardiani (formato da 6 teologi e 6 giuristi), Consiglio del Discernimento (39 membri) e Assemblea degli Esperti (88 membri). Oggi sono presieduti da Rohani, presidente della Repubblica, Larijani, capo del potere giudiziario, Jnnati, un giureconsulto esperto. In mancanza di accordi e in una fase di minacce di nuove sanzioni, il partito dei Pasdaran, con la sua forza economica e militare, avrebbe un peso non indifferente da mettere sul piatto delle scelte tanto da influenzare gli ayatollah medesimi. Durante il secondo mandato di Ahmadinejad chierici e laici del partito combattente misero in atto una sorta di braccio di ferro. Quest’ultimi cercavano propri spazi politici, svicolando dal protettorato del clero tradizionalista. Si disse pure che certi militari soffrissero il velayat-e faqih. Un mal di pancia che sembrerebbe durare.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it
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