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Un Califatto dell’Isis alle frontiere con Israele e Giordania?

Il gioco del “nemico del mio nemico che diventa mio amico” continua a produrre scenari inquietanti e mutevoli in Medio Oriente. Mentre lo Stato islamico (Isis) sta perdendo terreno in Iraq e nel nord della Siria, un gruppo affiliato all’Isis sta accumulando territorio e potere nel sud-ovest della Siria, a pochi chilometri dal confine giordano e israeliano. A riferirlo è un servizio dell’agenzia Askanews che cita fonti e analisti mediorientali. In quello che oggi viene definito “ingorgo” di forze in Siria (marines statunitensi, soldati turchi, forze russe, milizie curde, truppe del governo siriano), si individuano nuovi scenari in cui le milizie jihadiste conquistano improvvisamente territori in altri quadranti, avendo potuto contare sull’appoggio degli stessi soggetti (gli Usa) che più nord si apprestano a combatterli o quantomeno annunciano di doverlo fare. Se poi i nuovi territori sotto controllo dei miliziani jihadisti legati all’Isis sono vicini ad Israele, lo scenario si presenta ancora più contorto di quanto appare dalle dichiarazioni ufficiali e dalle veline diffuse acriticamente dai mass media.

Il 20 febbraio scorso, un migliaio combattenti del gruppo jihadista legato all’Isis, Jaysh Khalid bin al-Waleed, hanno lasciato la loro roccaforte nella valle del fiume Yarmouk (nel sud della Siria a circa 50 chilometri dal confine giordano) espugnando diversi villaggi vicini controllati da altri gruppi ribelli dell’opposizione al governo di Assad. Secondo il sito Middle East Eye (MEE), in un primo momento si era pensato che l’attacco fosse “progettato per rompere un lungo assedio e dare a Jaysh Khalid la possibilità di rifornirsi di beni, armi e veicoli”. Tuttavia, invece di tornare nella loro tradizionale roccaforte, i combattenti di Jaysh Khalid hanno proseguito prendendo il controllo delle località di Tseel (34.000 abitanti), Jileen (9.200 abitanti) e Adwan (4.900).

Secondo fonti di sicurezza citate dal sito Middle East Eye, la crescita di Jaysh Khalid “ha causato enorme frustrazione per il Centro delle operazioni militari (MOC) un organismo con sede ad Amman, nato nel 2013 e sostenuto dagli Usa per fornire armi, tattiche e finanziamenti alle fazioni dell’opposizione siriana. Ironia della sorte vuole che le Brigate dei Martiri di al Yarmouk, nome precedente di Jaysh Khalid, fosse finanziato e sostenuto proprio dal MOC fino al 2014.

Alla fine di novembre, aerei da guerra israeliani hanno colpito una posizione Jaysh Khalid nel sud delle alture siriane del Golan. Attacco, seguito nei primi di febbraio da un raid dell’aviazione militare giordana sempre sulla stessa posizione. Entrambi gli attacchi sono stati i primi nel loro genere, ma nessuno dei due sembra aver rallentato l’estensione del controllo territoriale del gruppo jihadista.

L’analista arabo Aymen al-Tamimi commenta su Middle East Eye che un fattore significativo nel corso degli ultimi avvenimenti sia stata la debolezza dei ribelli nel sud, qualcosa che Jaysh Khalid sembra aver compreso e sfruttato. “I ribelli del sud sono militarmente inefficaci e suddivisi in troppe fazioni, e la corruzione ha ostacolato la lotta contro Jaysh Khalid”. Ma non è solo la mancanza di volontà dei ribelli di combattere ad aver favorito l’ascesa dei jihadisti. Secondo Middle East Eye, esiste un altra questione, se possibile, ancora più spinosa: “Non tutti i gruppi ribelli sono necessariamente interessati a sconfiggere Jaysh Khalid”, afferma il sito ricordando che “lo spettro dei ribelli del sud va dal secolare all’islamista, e molti di questi gruppi non sono disposti ad uccidere altri musulmani, come si proclama Jaysh Khalid”. Per accreditare il suo teorema, il sito ricorda un colloquio fatto con un membro di Jaysh Khalid nel dicembre 2016, il quale ha dato questa spiegazione per le sconfitte dei ribelli sostenuti dagli Usa: “Non ci sono combattimenti. Le battaglie sono diventate qualcosa di concordato (…) solo per le fotografie”.

Un interrogativo si viene dunque imponendo. Sta nascendo un nuovo Califfato? E questa volta più a sud ma vicino alle frontiere di Israele. Aymen Tamimi ritiene che Jaysh Khalid voglia stabilire “un Califfato a Daraa occidentale. Se ci riuscissero, sarebbe una dimostrazione di forza, trovandosi vicino a Israele, alla Giordania e a Damasco. Per loro, avere una forte presenza accanto a questi confini è strategico, in quanto sono abbastanza vicini da potere colpire o bombardare Israele e Giordania”.

Il problema, però, è che i miliziani dell’Isis non hanno mai attaccato Israele o obiettivi israeliani, anzi se ne sono ben guardati limitandosi alla guerra delle parole. A gennaio il leader dello Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi ha registrato un video in cui ha minacciato Israele e la sua esistenza. “La Palestina non sarà la vostra terra, né la vostra casa, ma il vostro cimitero. Allah vi ha raccolto in Palestina perché i musulmani vi uccidano”, sempre nel video Al Baghdadi ha aggiunto “gli israeliani credevano avessimo dimenticato la Palestina e pensavano di essere riusciti a distrarre la nostra attenzione dalla questione palestinese. Ciò non è assolutamente vero, non abbiamo dimenticato la Palestina neanche per un momento. Presto, molto presto, avvertirete la presenza dei combattenti della Jihad”. In realtà lo schema operativo dell'Isis sembra ricalcare quello della setta degli "Assassini" nel Medioevo, più attivi nel colpire altri leader musulmani che la presenza dei crociati. “Combattere apostati vicini è più importante che combattere gli infedeli lontani.” è la logica perseguita dai miliziani jihadisti.

Gli apparati di sicurezza israeliani monitorano in modo particolare la penisola del Sinai dove si segnala la presenza di gruppi jihadisti che sembrano però più attivi contro le autorità egiziane che contro Israele. Altre presenze vengono segnalate sulle alture del Golan in parte occupate da Israele e contese con la Siria. Ma su questa acquiescenza dell’Isis verso Israele pesa soprattutto il periodo di straordinarie buone relazioni tra il burattinaio dell’Isis (l’Arabia Saudita e le petromonarchie del Golfo) con la stessa Israele in funzione antiraniana e – priorità per Israele – contro gli Hezbollah libanesi.

Secondo la rivista Analisi Difesa, il precipitare dei rapporti tra Arabia Saudita e Iran “aprono la strada a potenziali nuove cooperazioni tra Riad e Gerusalemme basate sull’interesse comune a contenere l’Iran, a rimuovere il regime di Assad e ridurre il peso di Hezbollah in Libano. Come sostiene il professor Yaron Friedman “l’Arabia Saudita deve fare i conti con il fatto che la maggior parte dei terroristi dello Stato Islamico possiede un accento saudita, ha avuto un’educazione wahabita e quindi è proprio il mondo sunnita che ha creato queste persone.” Inoltre non è un mistero che consiglieri militari israeliani collaborino attivamente con i peshmerga curdi iracheni contro l’Isis nel nord dell’Iraq. Insomma quelli che combattono l’Isis in un quadrante non disdegnano affatto di cooperarvi in altre regioni. Un gioco particolarmente rischioso dentro alleanze a geometrie variabili che vedono convergenze temporanee alternate a fasi di tutti contro tutti.

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