C’è un novello “ebreo errante”, oggi apolide, che negli ultimi tempi sembra voler riannodare, a modo suo, gli antichi legami che univano un tempo quella parte di Europa orientale oggi conosciuta con i nomi di Ucraina, Polonia, Lituania.
Il nuovo giramondo è l’ex presidente della Georgia (privato della cittadinanza e ricercato nella sua antica patria per appropriazione di 5 milioni di dollari e falsificazione di prove nella misteriosa morte dell’ex primo ministro Zurab Zhvania) e ora anche ex governatore della regione ucraina di Odessa (privato, lo scorso 26 luglio, mentre errava per gli States, anche della cittadinanza ucraina, per falsificazione dei documenti relativi proprio all’ottenimento della cittadinanza, nel 2015), quel Mikhail-NATO-Saakašvili che il 08/08/08 scatenò la guerra di Tbilisi contro l’Ossetia meridionale e la perse in cinque giorni e che ora, dopo aver vagato tra i cespugli lungo il confine polacco-ucraino (dagli USA, impossibilitato a rientrare in Ucraina, gli era stato consentito di atterrare a Varsavia) pare aver trovato un posto per la notte in Lituania, appena in tempo per unirsi alle manifestazioni sotto le finestre dell’ambasciata russa a Vilnius e ascoltare le accuse lanciate dall’ex presidente lituano Rolandas Paksas nei confronti dell’attuale presidente lituana, Dalia Grybauskaitė, di essere al servizio degli Stati Uniti. Ai giornalisti che gli chiedevano se intendesse ottenere la cittadinanza lituana, Mikhail ha risposto che è intenzionato a riprendersi quella ucraina, “tolta illegalmente” (dice lui).
La sua devozione a Kiev, d’altronde, Miša l’aveva espressa già due anni fa, durante il battibecco da ragazzacci scoppiato tra lui e il Ministro degli interni Arsen Avakov sulla privatizzazione dell’antiporto di Odessa (su cui si scontravano due bande affaristico-”politiche”) e finito a bicchieri d’acqua in faccia, in diretta TV, con Avakov e l’allora premier Arsenij Jatsenjuk che gli urlavano di “togliersi di mezzo dal nostro paese” e lui che rispondeva “io non me ne vado; non darò loro la possibilità di derubare la mia tanto amata Ucraina”. O, quantomeno, non aveva intenzione di dargliela, quella possibilità, prima di aver esaurito tutte le sue opportunità, uguali e contrarie: e in due anni è riuscito a farsi accusare di macchinazioni speculative e appropriazione di fondi pubblici e proprio in questi ultimi giorni l’ucraino “Obozrevatel” ha pubblicato una lettera aperta a Miša in cui si mettono di nuovo di pubblico dominio i suoi fiori all’occhiello durante la presidenza georgiana: racket, omicidi, repressioni e, ovviamente, appropriazioni.
Ecco che a Vilnius il “be-be-be” georgiano (è rimasta proverbiale la rabbia che gli impediva di articolare parola nel diverbio con Avakov) ha trovato un’altra degna tribuna da cui ammonire il mondo che Mosca, alle prossime manovre congiunte in Bielorussia, “Zapad” (Occidente), non si accontenterà di fare esercitazioni, ma si impadronirà del territorio bielorusso “e lo occuperà, come ha fatto con la Crimea”. La profezia di Miša ha lasciato così di stucco i telespettatori lituani, che Marina Pokrovskaja, su news-front.info, si è divertita ad “anticipare” i prossimi oroscopi post-sovietici. E così, alle “Occidente” seguiranno le “Sud-Est” e a farne le spese saranno i Paesi baltici, a dispetto dei valli, dei muri, dei reticolati con la Russia; anzi, “vivrete tutti dentro quei reticolati, insieme ai russi e ai polacchi e i rumeni”, che saranno annessi successivamente; poi, con le manovre “Da Nord-Sud a Nord-Nord”, sarà la volta di Georgia, Kazakhstan, Moldavia, Cina, Corea, India, Gran Bretagna… così da accerchiare completamente l’Ucraina!
Dunque, Miša, prima della “fuga in Lituania”, era venuto a trovarsi anche in mezzo alla querelle estiva (sembra ormai un classico) polacco-ucraina sulle pendenze storiche tra i due paesi. Il Ministro degli esteri polacco, Witold Waszczykowski, ha infatti esortato nelle settimane scorse i colleghi ucraini a riprendere i colloqui per addivenire a una “pacificazione” sulle questioni storiche pendenti tra i due paesi e li ha invitati a “premiare i sopravvissuti; diamo risalto a quegli ucraini e a quei polacchi, che salvarono le persone durante e dopo la guerra”, ha detto Waszczykowski, facendo riferimento allo Yad Vashem israeliano. Un discorso in tal senso, a proposito delle stragi di cittadini polacchi della Volinia da parte dei filonazisti dell’OUN-UPA di Stepan Bandera e Roman Šukhevič, tra il 1942 e il 1943, era stato avviato a fine 2016, durante la visita di Petro Porošenko a Varsavia; ma tutto era finito lì, a dispetto della risposta positiva del primo golpista d’Ucraina. Il Ministro degli esteri polacco si è detto però convinto che l’Ucraina (dei moderni banderisti!) possa “giocare un ruolo importante” nella storia contemporanea europea e anche nelle questioni della sicurezza polacca. “Noi non dimenticheremo il genocidio della Volinia; sappiamo che si sta glorificando l’UPA. Ma questo non significa che noi dimentichiamo quanto sia importante una Ucraina indipendente e sovrana per la sicurezza della nostra parte d’Europa. Continuiamo a esser disposti a collaborare con l’Ucraina e a sostenerla”. Waszczykowski ha detto che Varsavia, per l’avvio di colloqui con l’Ucraina, conta anche sull’esempio positivo della pacificazione polacco-tedesca.
Più aspro, invece, il presidente del partito conservatore governativo Prawo i Sprawiedliwość (Diritto e Giustizia) Jarosław Kaczyński, gemello dell’ex Presidente polacco Lech Kaczyński, il quale ha detto chiaro e tondo che l’Ucraina non entrerà in Europa se continuerà a costruire la propria identità nazionale sul culto di Stepan Bandera o di altri individui, i cui rapporti con la Polonia si fondavano sul genocidio. Come gli eredi (in questo caso, diretti) dei nazisti di OUN-UPA rispondano alle aperture polacche, lo aveva chiarito già un mese fa il deputato del Partito Radicale alla Rada, quel Jurij Šukhevič, figlio del comandante dell’OUN-UPA Roman Šukhevič, che aveva esortato gli ucraini a “sputare sul muso ai polacchi”.
Per completare il giro, il Ministero degli esteri ucraino ha rivolto ora una protesta ufficiale a Varsavia, in relazione alla decisione polacca di raffigurare, sui nuovi passaporti, la cappella cosiddetta “Orlęta Lwowskieche” (gli aquilotti di Lwow) che sorge nel campo polacco del cimitero monumentale di Ličakivskij (Cmentarz Łyczakowski, per i polacchi) a L’vov, uno dei luoghi simbolo della città e in cui sono sepolti i giovani “aquilotti” polacchi morti durante la guerra civile scoppiata tra il 1918 e il 1919 tra i nazionalisti polacchi di Józef Piłsudski e quelli ucraini di Simon Petljura, per il controllo della Galizia orientale e del suo maggior centro, L’vov o Lwow appunto, rivendicata quale centro di identità nazionale sia da Kiev che da Varsavia. D’altra parte, quello polacco sembra essere un vizietto: in precedenza, per i nuovi passaporti, avevano puntato gli occhi sull’immagine della Porta Santa, emblema di Vilnius e avevano fatto marcia indietro solo dopo le proteste lituane, per non inasprire i già tesi rapporti tra i due paesi, dopo che tre anni fa Radosłav Sikorski, allora Ministro degli esteri polacco, aveva parlato della Lituania come di un “piccolissimo stato a cui bisogna dare una lezione” e aveva definito i lituani “ladri” e “truffatori”.
Ma la storia rappresenta il passato; al presente, quello che conta, è il fronte comune contro il grande nemico orientale. Così, Varsavia ammette ora di aver “legalizzato”, nel dicembre 2014, l’attività del fondo polacco “Dialogo aperto”, che fino a quel momento aveva commerciato, di nascosto, in materiale militare con gli “eroi” di majdan. La data del dicembre 2014, nota news-front.info, è significativa: uno dei momenti più critici per le truppe ucraine nel Donbass, tra la sacca di Debaltsevo e l’assedio all’aeroporto di Donetsk. Ma ecco che lo scorso giugno la licenza a “Dialogo aperto” viene revocata: proprio in coincidenza con le proteste di massa in Polonia contro la riforma giudiziaria e con l’appello del boss di “Dialogo aperto”, tale Bartosz Kramek, che chiamava a “fare come a majdan”, pubblicando una nota in 16 punti con le istruzioni sui metodi sperimentati dai golpisti ucraini. E’ questa la Polonia, che sostiene a spada tratta la “lotta per la democrazia” majdanista, se questa in Ucraina va contro “l’oppressivo vicino” dell’est: in casa propria, ci pensano da soli, o quasi, insieme ai battaglioni NATO, a “trattare” con Mosca.
E’ questa la Polonia in cui, in 20 anni, sono scomparsi oltre 330 dei 561 monumenti che, fino al 1997, sorgevano dentro o nelle vicinanze dei cimiteri in cui sono sepolti i soldati dell’Armata Rossa caduti in terra polacca. L’eliminazione dei monumenti, che nelle scorse settimane ha accresciuto la tensione tra Mosca e Varsavia, ha ricevuto “legalizzazione” con la firma del presidente Andrzej Duda, lo scorso 17 giugno, all’emendamento apportato alla legge sul divieto della propaganda comunista in Polonia.
Ma, come la storia ucraino-polacca rappresenta il passato, così gli affari russo-polacchi costituiscono il presente e, a dispetto di tutte le tirate contro il gasdotto “North stream-2”, che attenterebbe alla “sovranità dei paesi dell’Europa nordorientale”; malgrado le urla sulla inammissibilità della monopolizzazione del mercato europeo del gas da parte di Gazprom; e nonostante le proteste contro il pieno utilizzo della bretella “Oral”, che collega il “North stream-1” ai sistemi di transito dell’Europa centrale e occidentale attraverso la Germania, lasciando all’asciutto Polonia e Ucraina dei diritti di transito del gas russo, nonostante tutto ciò, Varsavia non ha ancora deciso se orientarsi o meno verso il costoso gas di scisto USA. In sostanza, a differenza dell’Ucraina che, pur di “liberarsi dalla dipendenza energetica russa”, ha già optato per il gas USA, a 112 dollari il m3 contro i 95 dollari russi, i polacchi – che oggi acquistano da Gazprom 10 miliardi di m3 annui sui 15 del loro consumo totale – stanno mercanteggiando tra Mosca, Doha e Washington.
Come dicono i russi, “l’amicizia va con l’amicizia, ma i soldi vanno per conto loro”.
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