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Nell’Argentina di Macrì si lavorerà 12 ore e le ferie non saranno retribuite

Qualche elemento per distinguere reazionari e progressisti esiste da sempre. E sono elementi che non cambiano mai. Certo, ogni tanto arriva un cantastorie – toscano o milanese, cambia poco – che viene a raccontare che il “Jobs Act è una cosa di sinistra”. Ma esattamente intorno al lavoro, le sue regole, il livello del salario, l’orario, ecc, si decide se una politica è a favore di chi fatica oppure contro. Insomma, se è progressista o reazionaria.

Con questi elementi si capisce anche qualcosa di politica internazionale, ormai. Il Venezuela di Maduro non è sotto attacco perché “poco democratico” (ci sono oltre 100 partiti riconosciuti e legali, compresa la cosiddetta “opposizione” armata apertamente golpista per conto degli Usa), ma perché possiede le più grandi riserve di petrolio conosciute. E perché ha tolto buona parte della rendita petrolifera – neanche tutta! – dalle rapaci mani delle “sette sorelle”, impegnando quelle risorse nel miglioramento dei livelli di vita della popolazione più povera (è sparito l’analfabetismo, si è diffusa l’assistenza sanitaria, ecc).

Ma quali sono i regimi che piacciono ai “democratici liberali” nordamericano o europeisti? Quello argentino di Mauricio Macrì, per esempio. Che non ha a caso sta approvando “riforme” come questa…

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Francesca Capelli

https://alganews.wordpress.com/

Quando nel novembre del 2015 Mauricio Macri e il suo partito, il Pro, vincono le elezioni politiche e presidenziali, si apre per l’Argentina uno scenario interessante. Per la prima volta la destra ottiene il potere con libere elezioni e non con un colpo di stato. Ex governatore di Buenos Aires, Mauricio Macri rimonta negli ultimi mesi della campagna elettorale. Al grido “Cambiemos” (modo imperativo), slogan creato dal suo spin doctor Jaime Durán Barba, Macri partecipa ai dibattiti televisivi con una strategia di comunicazione precisa: mai rispondere in modo concreto a domande sul proprio programma, accusare il governo di mentire sui dati (qualsiasi dato), dichiarare di voler unire gli argentini in nome di un interesse comune (come se la politica non fosse l’arena che permette al conflitto di esprimersi senza sfociare nella guerra civile) e che il buono dei 10 anni precedenti non sarebbe stato eliminato. Lo stesso slogan “Cambiemos” rientra nella definizione di “significante vuoto”, che dobbiamo al politologo argentino Ernesto Laclau (morto nel 2014 e autore di “La ragione populista”, pubblicato in Italia Laterza), ossia una pratica discorsiva che permette di costruire un immaginario privo di contenuti.
Cambiamo! Ma rispetto a cosa?
I dati economici con cui Cristina Kirchner termina il suo secondo mandato parlano chiaro: chiusura del debito del default (con l’esclusione della trattativa con i fondi Buitres), disoccupazione passata dal 29 per cento del post default al 6,9 per cento (dati Fmi), coefficiente di Gini (che misura la disuguaglianza sociale) sceso dallo 0,54 allo 0,42 per cento (dati Onu), povertà estrema diminuita dell’80 per cento. La politica economica aveva puntato sulla rinazionalizzazione di industrie chiave (la petrolifera Ypf, Aerolineas Argentinas…) e a un tentativo di autarchia finanziaria (dopo l’esperienza del default del 2002). La ricetta è tipicamente neokeynesiana: per evitare l’indebitamento estero si è preferito puntare a quello interno, finanziato con l’emissione di cartamoneta. Una scelta non esente da conseguenze: da una parte l’aumento dell’inflazione, problema che da sempre affligge gli stati latinoamericani; dall’altra misure molto restrittive sull’acquisto di dollari (che gli argentini considerano un bene rifugio), alimentando il mercato nero, principale motivo malcontento degli elettori di classe media. È sufficiente a spiegare la disfatta elettorale? No. A questo va aggiunta l’incapacità di controllare l’inflazione (sebbene a difesa del salario reale ci fossero accordi quadro di adeguamento automatico, una sorta di “scala mobile”), gli elevati dazi doganali che rendevano molto costose le merci importate, l’avversione dei mass media, in particolare il gruppo Clarín, colosso monopolista che in virtù di una legge antitrust avrebbe dovuto cedere parte delle sue attività. Non a caso, questa legge, approvata anche con i voti di parte del Pro, viene abrogata con un decreto di necessità e urgenza a pochi giorni dalle elezioni. Altri motivi di malcontento della classe media, i provvedimenti (sussidi, assegni familiari…) a favore delle classi più svantaggiate, soprattutto a partire dal 2014 quando un andamento anticiclico dell’economia – unito al crollo dei prezzi delle materie prime su cui si era fatto eccessivo affidamento – dà il via a una stagnazione economica, in un paese che fino ad allora si era difeso dall’ondata della crisi mondiale iniziata nel 2008.
A questo vanno aggiunti gli scandali sulla corruzione e gli errori di comunicazione del kirchnerismo, primo tra tutti quello di far convergere, nella narrazione politica, le due opposizioni – la destra e la sinistra di tipo marxista – in un unico calderone indistinto. A casa nostra c’è chi ci ha perso un referendum costituzionale, credendo fosse una trovata geniale. Da qui l’accusa bipartisan – più o meno fondata – di voler occupare lo stato con la propria burocrazia. Tanto che al ballottaggio, dopo che già si prefigurava la possibile vittoria di Macri, il Partido Obrero e il Frente de Izquierda (partiti di sinistra) avevano detto ai propri elettori di votare scheda bianca.
A distanza di quasi due anni dal suo insediamento, in che modo Macri ha realizzato la sua promessa di cambiamento? Per prima cosa ha eliminato i sussidi sulle tariffe dei servizi essenziali (gas, acqua, luce), lasciando le imprese distributrici, che operano in regime di monopolio, la libertà di adeguare i prezzi a logiche di mercato. Le tariffe sono così aumentate da un mese all’altro del 500-2000 per cento e continuano a salire in modo esponenziale. Questo non colpisce solo le famiglie, ma anche le imprese, in molti casi costrette alla chiusura. Le pensioni non sono più state adeguate all’inflazione e l’assistenza medica agli anziani indigenti è stata tagliata, come tutta la spesa sociale. L’inflazione è salita al 45 per cento annuo. È stato tagliato il budget per la ricerca scientifica e aumentato quello per le spese militari.
Nel mirino di Macri, il “giro d’affari dei diritti umani”: alcuni mesi fa è stata approvata una legge che amnistiava di fatto i militari della dittatura, poi ritirata in seguito alle proteste di massa. Contemporaneamente sono state eliminate le pensioni di invalidità: anche in questo caso, di fronte alle proteste popolari, il provvedimento è stato ritirato e l’erogazione delle pensioni dovrebbe riprendere in questi giorni.
Nel 2016 è stato lanciato un nuovo prestito internazionale, pari a 33mila milioni di dollari (il più grande della storia mondiale) che ha portato il paese a un indebitamento pari a quasi il 30 per cento del Pil, seguito poche settimane fa da un’ulteriore emissione di 2.750 milioni di dollari, con scadenza a 100 anni.
La pioggia di dollari per investimenti esteri non si è verificata, perché il paese resta instabile per l’inflazione e per la protesta sociale ogni giorno più accesa, mentre aumenta la disoccupazione (evento auspicato in campagna elettorale, utile ad ammansire i sindacati) e il malcontento.
In questo contesto, il paese si avvia verso le elezioni politiche di mid term, in ottobre. Dopodiché il governo valuterà se implementare la nuova legge sul lavoro, per riportare la giornata a 12 ore, abolire le ferie retribuite, la tredicesima e l’indennità di licenziamento e abbassare il costo per gli imprenditori con una diminuzione dei contributi pensionistici. Inutile dire che i risultati elettorali saranno decisivi.

 

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